Perché pretendere tanti beni, diletti e gloria senza fine, unicamente a spese del buon Gesù?
Con i piaceri ed i passatempi, dobbiamo godere di ciò che egli ci ha guadagnato a prezzo di tanto sangue? E' impossibile.
E con vani onori pensiamo di riparare al disprezzo da lui sofferto perché noi potessimo regnare eternamente? E' assurdo.
Si sbaglia, si sbaglia strada; non arriveremo mai lassù.
(Santa Teresa d'Avila, Libro della mia vita)
Entrate per la porta stretta, perché larga è la porta e spaziosa la via che
conduce alla perdizione, e molti sono quelli che entrano per essa;
quanto stretta invece è la porta e angusta la via che conduce alla vita, e
quanto pochi sono quelli che la trovano! (Mt 7,13-14)
Il digiuno e l’astinenza — insieme alla preghiera, all’elemosina e alle altre
opere di carità — appartengono, da sempre, alla vita e alla prassi penitenziale
della Chiesa: rispondono, infatti, al bisogno permanente del cristiano di
conversione al regno di Dio, di richiesta di perdono per i peccati, di
implorazione dell’aiuto divino, di rendimento di grazie e di lode al
Padre.
Nella
penitenza è coinvolto l’uomo nella sua totalità di corpo e di spirito: l’uomo
che ha un corpo bisognoso di cibo e di riposo e l’uomo che pensa, progetta e
prega; l’uomo che si appropria e si nutre delle cose e l’uomo che fa dono di
esse; l’uomo che tende al possesso e al godimento dei beni e l’uomo che avverte
l’esigenza di solidarietà che lo lega a tutti gli altri uomini. Digiuno e
astinenza non sono forme di disprezzo del corpo, ma strumenti per rinvigorire lo
spirito, rendendolo capace di esaltare, nel sincero dono di sé, la stessa
corporeità della persona. (CEI Prot 662/94)
Ci sono, infatti, esercizi nei quali il corpo deve faticare, come le veglie, i digiuni e altri simili, che non sono di ostacolo, ma di aiuto agli esercizi dello spirito, purché fatti con criterio e discernimento.
Praticati, invece, indiscriminatamente fino al punto di impedire, indebolendo lo spirito e fiaccando il corpo, gli esercizi spirituali, finiscono, in chi si comporta così, per sottrarre al corpo il frutto della buona opera compiuta, allo spirito l’amore, al prossimo l’esempio, a Dio l’onore, rendendolo sacrilego e responsabile davanti a Dio di tutte queste colpe.
Non che, secondo il pensiero dell’Apostolo, anche questo tipo di eccesso non sembri umano, non sia conveniente, non si debba fare e non sia giusto che la testa abbia a dolere qualche volta quando si pone al servizio di Dio, essa che un tempo ha sofferto spesso fino a provar dolore per le vanità del mondo; che lo stomaco soffra la fame fino a ruggire, esso che parecchie volte si è rimpinzato fino al vomito: ma in tutte le cose dobbiamo avere misura.
Il corpo va talvolta mortificato, non distrutto.
Anche l’esercizio fisico, infatti, possiede, anche se modesta, una sua utilità.
Per questo dobbiamo avere, anche se in misura modesta – non tuttavia per indulgere alla concupiscenza –, una certa cura della carne.
Essa va trattata con
sobrietà e con una certa disciplina spirituale, cosicché né nel comportamento né nella qualità né nella quantità possa apparire alcuna cosa, che non si addica a un servitore di Dio. (Lettera d'Oro, Guglielmo di Saint-Thierry, pti 126/128)
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