Sapienza di Caterina
Messo
adunque, con la grazia del Signore, il fondamento della credibilità, assistiti
da Colui che è la Pietra angolare, passiamo ora alla costruzione dell'edificio
spirituale.
Come
è vero che le anime fedeli sono vivificate dalla parola del Signore e che
vivono di essa, così prendiamo le mosse dalla straordinaria dottrina data a
questa santa vergine dal Creatore di tutte le cose e suo straordinario Maestro.
Raccontava
dunque la santa vergine ai suoi confessori, tra i quali, senza merito, sono
stato anch'io, che all'inizio delle visioni di Dio, cioè quando il Signore Gesù
Cristo cominciò ad apparirle, una volta, mentre pregava, le comparve davanti e
le disse: «Sai, figliola, chi sei tu e
chi sono io? Se saprai queste due cose, sarai beata. Tu sei quella che non è;
io, invece, Colui che sono. Se avrai nell'anima tua tale cognizione, il nemico
non potrà ingannarti e sfuggirai da tutte le sue insidie; non acconsentirai mai
ad alcuna cosa contraria ai miei comandamenti, e acquisterai senza difficoltà
ogni grazia, ogni verità e ogni lume».
Oh,
parola piccolina e grande! Oh, breve dottrina e in corto qual modo infinita! Oh
sapienza racchiusa in così poche sillabe! Chi mi darà ch'io possa intenderti?
Chi mi aprirà i tuoi sigilli? Chi mi condurrà a scrutare l'abisso della tua
profondità? Sei forse tu quella lunghezza e larghezza, quella altezza e
profondità, che l'Apostolo Paolo desiderava di comprendere con tutti i santi di
Efeso?. O sei forse una cosa sola con la Carità di Cristo, la quale trascende
ogni umano sapere?
Lettore carissimo, arrestati. Non passiamo oltre all'incomparabile tesoro che troviamo nel campo di questa santa vergine. Scaviamo risoluti il terreno, perché i segni che appariscono, ci ripromettono una sterminata ricchezza.
Disse
l'infallibile Verità: «Se tu saprai queste due cose, sarai
salva». E aggiunse: «Se avrai nell'anima tua questa
cognizione, il nemico non potrà ingannarti», e le altre cose che
abbiamo dette sopra. E buono davvero mi sembra starcene qui: facciamo qui tre
tabernacoli: uno, ad onore di Gesù che insegna, penetrando noi con la mente le
sue parole; l'altro, ad amore e devozione della vergine Caterina, che riceve
questi insegnamenti, muovendoci verso di lei con riverente affetto; il terzo, a
profitto di ciascuno di noi, che qui troviamo la vita, imprimendo tutto nella
nostra memoria. Così potremo scavare e far nostre le ricchezze spirituali, per
non esser costretti a mendicare nella vergogna.
«Tu sei, disse il Signore, quella che non sei».
E non è forse così? Ogni creatura fu fatta dal nulla dal Creatore, perché il
creare è fare una cosa dal nulla; e la creatura, abbandonata a se stessa, tende
a ritornare nel nulla. Se, dunque, il Creatore cessasse anche un istante di
conservarla, subito di essa non se ne parlerebbe più. Quando la creatura
commette il peccato, che è il nulla, sempre si accosta al nulla; né,
secondo l'Apostolo, da sé sola può fare o pensare alcuna cosa. Niente
meraviglia, perché da sé non può essere, né da sé può conservarsi nell'essere.
Onde il medesimo Apostolo dice: «Chi si stima qualche cosa, essendo nulla, …».
-
Vedi, adunque, o lettore, quanto ogni creatura è circondata dal nulla! Tratta
dal nulla, tende naturalmente al nulla; col peccato si riduce al nulla, come
dice Agostino; niente può fare da sé, come afferma la stessa Verità incarnata,
che dice: «Senza di me niente potete fare». Quindi si può concludere che la creatura non
è. Chi avrà il coraggio di affermare che quella cosa sia, quando essa è niente?
Quali e quante le conclusioni veridiche e utili ad allontanare ogni vizio se ne
deducano, le conobbero pienamente i santi uomini di Dio, i quali, ammaestrati
dallo Spirito santo, furono ripieni di questa sapienza. Che piaga di superbia può entrare in
quell'anima, che sa di essere nulla? Chi si può gloriare di un'opera fatta, se
sa che non è la sua? Come reputarsi superiore agli altri se nell'intimo del
cuore saprà di non essere? In qual maniera disprezzerà gli altri o li
invidierà, chi disprezza se stesso fino al nulla? Come potrà gloriarsi delle
ricchezze terrene, chi ha già disprezzato la propria gloria? Dice la Sapienza
incarnata: «Se io glorifico me stesso, la mia gloria è un niente».
Di più: come oserà dire sue le cose del mondo, chi sa benissimo che non gli
appartengono, e che sono di Colui che le fece? Ammesso ciò, quale anima potrà
dilettarsi nei piaceri dei sensi, se annienta se stessa con questa
considerazione? Chi vorrà restarsene pigro, conoscendo che l'essere suo non è
suo, ma cerca di mendicarlo da altri? Da
queste cose, sia pure dette in breve, tu puoi comprendere, o lettore, che tutti
i vizi vengono scacciati da queste tre parole: «Tu non sei».
Certo potremmo tirare il discorso più a lungo, se non lo impedisse la
narrazione della vita, che io intendo scrivere.
-
Non dobbiamo però tralasciare la seconda parte di questa eccellente dottrina. Disse dunque la stessa Verità: «Io sono Colui che sono». È forse questa una dottrina nuova? È
nuova e antica. Il Signore stesso che parla, la disse dal roveto ardente a
Mosè. Tutti gli interpreti delle sacre Scritture ne hanno sapientemente
trattato, ed in realtà hanno insegnato che Colui soltanto è, al quale conviene
l'essere per essenza; nel quale non vi è distinzione fra la Sua essenza e
l'esistenza; il quale da nessun altro ha l'essere, se non da Sé, e che da Lui
proviene e procede ogni altro essere. Solo Lui adunque può dire con proprietà
una simile proposizione. Per usare le parole dell'Apostolo, non è in Lui come
nelle creature est et non, ma soltanto est. Infatti Egli stesso comanda a Mosè
di dire: «Mi manda Colui che è». Né fa meraviglia,
perché, se si studia attentamente la definizione della creazione, se ne deduce
infallibilmente questa dottrina. Se il creare non è altro che fare una cosa
dal nulla, è evidente che qualunque essere procede dallo stesso solo
Creatore, né può da altra parte in alcun modo provenire, perché egli solo è la
fonte di ogni essere. Ammesso questo, ne segue che la creatura niente ha da sé,
ma tutto riceve dal Creatore, e che lo stesso Creatore ha tutta l'infinita
perfezione dell'essere non da altri che da se stesso. Se non avesse in sé
l'infinita virtù dell'essere non potrebbe fare alcuna cosa dal nulla. Questo è
tutto ciò che il sommo Re e Maestro volle insegnare alla sua sposa quando le
disse: «Conosci dall'intimo del tuo
cuore che io sono veramente il tuo Creatore e sarai beata».
-
Il Signore disse le stesse parole ad un'altra Caterina (d’Alessandria), quando
accompagnato da un coro di Angeli e di Santi, andò a visitarla nella prigione.
Le disse: «Conosci, o figliola, il tuo
Creatore». Da questo conoscimento procede indubbiamente ogni perfezione di
virtù ed ogni buona ordinazione della mente creata. Chi, se non uno che non ragiona o che è
stolto, non si assoggetta spontaneamente e di buona voglia a Colui dal quale
riconosco avere ogni cosa? Chi non amerà con tutto il cuore e con tutta la
mente un così grande e ricco benefattore, che concede il bene a piene mani? Chi
non si accenderà sempre più di amore verso un così amabile Amante, il quale,
senza alcun merito precedente, e non mosso altro che dall'eterna bontà, amò le
creature anche prima d'averle create? Chi ormai non temerà e non sarà preso
continuamente dal timore e tremore di offendere o di perdere un sì grande e
tremendo Creatore, un sì potente e meraviglioso Donatore, un sì ardente e
grazioso Amante? Chi non sopporterà ogni pena per amore di Colui dal quale ha
ricevuto e riceve ogni bene e confida di riceverne in avvenire? Chi si
stancherà per le fatiche o si affliggerà nelle malattie per piacere ad una
simile Maestà? Chi non riceverà con riverenza, non ascolterà con attenzione e
non conserverà nel tesoro di una tenace memoria le parole di Lui con le quali
parla benignamente alle sue creature? Chi, secondo le proprie forze, non
ubbidirà con animo lieto ai suoi comandamenti?
Tutte queste cose scaturiscono da quella perfetta cognizione, con la
quale si dice: «Conosci che tu sei
quella che non sei, ed io sono Colui che sono». Oppure, con altre parole: «Conosci, o figliola, il tuo Creatore». Valuta ora, o lettore, quale fondamento abbia
messo il Signore sul principio, per caparra della sua sposa. Non ti pare esso
bastante per tener su una costruzione di qualunque perfezione spirituale, sì
che né dai vènti né dalle tempeste possa essere atterrata né mossa? Io, per quanto me lo concesse il Signore, ti
parlai già del fondamento della credibilità; ora poi tu vedi chiaramente qual
fondamento abbia posto il Sommo Architetto nell'animo di Caterina. Rassicurato,
dunque, da questo duplice fondamento, tu non potrai restare nell'incertezza.
Stai in una ferma e costante fedeltà; non essere incredulo ma fedele.
-
Alla eccellente dottrina esposta, il Signore ne aggiunge un'altra, degna di
nota, la quale, se non sbaglio, è una conseguenza della prima. Le riapparve
infatti più tardi e le disse: «Figliuola, pensa a me: se lo farai, io
penserò subito a te». Ricordati, o lettore, la parola che il
Salmista grida ad ogni giusto: «Getta nel seno del Signore la tua
ansietà ed egli ti sostenterà: non farà che il giusto ondeggi per sempre».
Vediamo ora come la santa vergine interpretasse queste parole. Discorrendone con me in segretezza, mi diceva
che il Signore le aveva allora comandato
di scacciare dal suo cuore ogni altro pensiero e di ritenervi solo quello di
Lui. E perché nessun affanno temporale o spirituale la distogliesse dalla
pace di questo pensiero, soggiunse: «Io
penserò a te», come se le avesse voluto dire: non ti preoccupare, o figliola,
della salute dell'anima e del corpo, perché ci voglio pensare io, che so e
posso, e voglio provvederci con premura. Cerca
solo di pensare a me e di comprendermi, perché in questo consiste la tua
perfezione e il tuo ultimo fine. O
bontà increata, che cosa ti si aggiunge se questa tua vergine sposa, o
qualunque altra creatura, ti pensa o ti medita? Te ne può forse venire qualcosa
di più? Perché chiedi con tanto affetto che si pensi e si ripensi a te, se non
perché sei sommamente buona e sei sempre disposta a venire a noi per attirarci
a te?
-
La vergine del Signore da questa dottrina concludeva che dal momento che ci
siamo dati a Dio con il battesimo e poi con la vita sacerdotale o monastica,
non dobbiamo assolutamente esser solleciti di noi, ma solo dobbiamo aver fretta
di pensare come piacere al Signore, al quale abbiamo dato noi stessi. E ciò non
in vista del premio, ma dell'unione, perché quanto più restiamo attaccati a
Lui, tanto più gli piacciamo. Il premio non deve desiderarsi se non in quanto
ci unisce col nostro Principio infinitamente perfetto. Allorquando perciò io, o altri frati,
temevamo qualche pericolo, lei soleva dirci: «Perché vi preoccupate? Lasciate
fare alla Provvidenza divina: quando più avete paura, essa ha sempre gli occhi
sopra di voi e non smette mai di provvedere alla vostra salute». Tanta fiducia nel suo Sposo la concepì, dopo
che gli ebbe sentito dire: «Io penserò a
te»; ed ebbe un concetto così alto della Provvidenza divina, che non faceva
che parlarne continuamente, tanto che nel Libro che scrisse, non omise di
discorrerne in un lungo trattato e per molti capitoli, come chiunque,
leggendolo, può sincerarsi.
-
Mi ricordo che una volta, essendo in molti in mare con Caterina, verso la metà
della notte, cessò il vento favorevole alla navigazione e il timoniere cominciò
a impaurirsi perché diceva di trovarci in un luogo molto pericoloso e che, se
si fosse levato il vento di fianco, per forza bisognava dirigersi in parti
lontane, o appoggiarsi alle isole. Udito ciò, parlai con lei, e con
trepidazione le dissi: «O mamma (tutti la chiamavamo con questo nome), non vedi
in che pericolo siamo». Ed ella mi rispose subito: «Che avete da farci voi?». E
così mi chetò la voce e la paura. Poco
dopo cominciò a tirare il vento contrario e il timoniere avvertì essere
costretto a tornare indietro. Lo riferii alla vergine, ed ella mi rispose:
«Volti mano nel nome del Signore e vada come il Signore manda il vento». Il
timoniere voltò la direzione e ritornammo indietro; ma abbassando lei il capo e
pregando, non avevamo fatto un percorso quanto è lungo un tiro di balestra, che
riprese a soffiare il vento di prima, e conducendoci il Signore, compiuta l'ora
di mattutino, ci ritrovammo con allegrezza nel porto, al quale eravamo diretti.
E cantammo ad alta voce: «Te Deum laudamus».
Questo l'ho raccontato qui non per ordine di storia, ma per uniformità
di materia. Questa seconda dottrina,
come sopra ho detto, qualunque persona intelligente capisce che deriva dalla
prima, perché se l'anima conosce che di
per sé non è nulla, e che tutto deve al Signore, ne viene che non confida nelle
sue operazioni, ma, solo in quelle di Dio. Per questo l'anima ripone tutta
la sua sollecitudine in Lui, e questo è a mio vedere dirigere il pensiero nel
Signore, come dice il Salmista. L'anima, però, non tralascia di fare quel che
può, poiché derivando tale confidenza dall'amore e l'amore causando
necessariamente all'amante il desiderio della cosa amata, (il quale desiderio
non vi può essere se l'anima non fa quelle opere che le sono possibili), ne
nasce che ella opera in ragione dell'amore. Non per questo confida nella sua
operazione come cosa sua, ma come operazione del Creatore, la qual cosa
perfettamente le insegna il conoscimento del suo niente e la perfezione dello
stesso Creatore.
-
Fra le cose meravigliose, di Caterina io stimo che si debba tenere in gran
conto la sua sapienza; perciò non posso non aggiungere gli altri suoi
insegnamenti, che sono una derivazione della dottrina già esposta. La santa vergine discorreva spesso con me
dello stato in cui si trova un'anima che ama il suo Creatore e diceva che
quest'anima non vede né ama se stessa né alcun altro; dimentica sé e ogni altra
creatura. Le chiesi di essere più chiara, e lei: «L'anima che vede la sua
nullità e conosce che tutto il suo bene sta nel Creatore, abbandona se stessa
con tutte le sue facoltà e tutte le creature, e tutta si immerge nel suo
Creatore; cosicché indirizza a Lui principalmente e totalmente le sue
operazioni, né vuole in alcun modo allontanarsi da Lui nel quale si accorge di
aver trovato ogni bene ed ogni perfezione di felicità. Per questa unione
amorosa, che ogni giorno aumenta, l'anima si trasforma in un certo modo in Dio
talmente, che non può pensare, intendere e amare se non Iddio, e non aver
presente altro che Iddio. Se stessa e le altre creature non vede se non in Dio,
né ricorda se stessa e gli altri, se non precisamente in Dio. Le succede dunque
come a colui che s'immerge nel mare e nuota sott'acqua: non vede né tocca che
l'acqua e quello che sta nell'acqua; e di ciò che è fuori dell'acqua nulla
vede, né tocca, né palpa. Se gli oggetti che sono fuori dell' acque vi si
riflettono, allora li vede, ma soltanto nell'acqua e come essi vi si proiettano
e non altrimenti. Questa, diceva è la vera e retta dilezione di sé e di tutte
le creature, nella quale non si sbaglia mai, perché, necessariamente governata
dalle regole divine, per essa non si desidera alcuna cosa fuori di Dio, perché
si esercita in Dio e in Lui rimane».
Non so se son riuscito a rendere bene il suo pensiero perché lei certe cose
le aveva imparate dall'esperienza come un altro Doroteo, il quale è ricordato
da Dionisio, ma io (me ne dispiace) tanto poco esperto in materia, non ho tutte
le qualità per ridirle bene. Tu, o lettore, meditale, o ricevile secondo la
grazia che Dio ti ha donato. So però che quanto più sarai unito a Dio, tanto
più intenderai questa profonda dottrina.
-
Da una simile conclusione, questa maestra della scienza divina, ne deduceva
un'altra, che non si stancava di ripetere a coloro che voleva indirizzare nella
via di Dio. Un'anima congiunta a Dio nel
modo che abbiamo detto, quanto amore ha di Dio, tanto odio santo ha dei propri
sensi. Dall'amore di Dio naturalmente procede l'odio della colpa, che si
commette contro Dio; per cui l'anima, vedendo che il fomite di ogni colpa regna
nella parte sensitiva, e che in essa ha le radici, spinta ad un grande odio
contro la parte sensitiva, fa tutti gli sforzi non per distruggere i sensi, ma
per annientare in essi il fomite che vi è radicato; e ciò non si può fare senza
un grave risentimento dei sensi. Ma perché è difficile che non vi rimanga
qualche radice di colpa, sia pur piccola, secondo la parola di San Giovanni:
«Se diremo che non abbiam colpa, noi inganniamo noi stessi e non è in noi
verità», l'anima comincia ad avere un certo dispiacere di se stessa, dal quale
origina l'odio santo e il disprezzo di se stessa, odio e disprezzo che la
difendono dalle insidie del demonio e da quelle degli uomini. Non vi è nulla che tenga l'anima tanto sicura
e forte, quanto quel santo odio, cui voleva alludere l'apostolo, dicendo:
«Quando sono debole, allora sono potente».
«O eterna bontà di Dio, diceva Caterina, che cosa hai fatto? Dalla colpa
procede la virtù, dalla debolezza la forza, dall'offesa la clemenza, dal dolore
il piacere. Abbiate sempre in voi, o figlioli, questo odio santo, perché vi
farà umili e vi sentirete umili sempre. Avrete la pazienza nelle avversità,
sarete moderati nell'abbondanza, ornati d'ogni onesto costume, grati e diletti
a Dio e agli uomini». E aggiungeva: «Guai e poi guai a chi non ha quest' odio
santo, perché dove esso manca, regna necessariamente l'amor proprio, che è la
sentina di tutti i peccati, la radice e la causa di ogni pessima cupidigia».
-
Queste e simili parole diceva quotidianamente ai suoi per raccomandar loro
quell'odio santo e incitarli a combattere l'amor proprio. Quando avvertiva in qualcuno di loro, o anche
negli altri, qualche difetto o colpa, mossa a pietà, diceva: «Questo lo fa
quell'amor proprio, che stimola la superbia e gli altri vizi». Dio mio, quante
e quante volte ho sentito ripetere a me misero: «Fate tutti gli sforzi per
sradicare dal vostro cuore l'amor proprio e per piantarvi quell'odio santo;
perché questa è infallibilmente la via reale per la quale si arriva ad ogni
perfezione, e ci si emenda d'ogni difetto». Devo però confessare che né allora
né ora ho mai voluto capire la profondità e l'utilità delle sue parole, né ho
cercato di metterle in pratica. Carissimo
lettore, se ti rammenti di quelle due città - nominate da Agostino nel libro
della Città di Dio -, delle quali una è costituita dall'amor proprio e arriva
fino al disprezzo di Dio, e l'altra dall'amor di Dio e giunge fino al disprezzo
di sé, subito arrivi a capire questo insegnamento; e se intendi il senso
dell'Apostolo quando dice: «La potenza si compie nella debolezza» come egli si
sentì dire dal cielo mentre pregava, perché gli fosse allontanato la tentazione
e concludeva: «Volentieri mi glorierò nelle mie infermità, affinché abiti in me
la potenza di Cristo», tu vedrai che i fondamenti dottrinali di questa santa
vergine son gettati sopra la solida pietra della Verità che è Cristo, il quale
è chiamato anche Pietra. Basta per ora
quel che abbiam detto intorno alla sua dottrina, data a lei dalla Verità e da
lei trasmessa a noi. Così porrò fine al
capitolo, per il quale non occorre citare testimoni, perché quanto vi si
contiene l'ho inteso io uscire dalla bocca di Caterina. Ammonisco però chiunque legga, di considerare
di qual merito sia stata davanti a Dio questa santa vergine e come le si debba
credere anche nelle altre cose, se fu illuminata da tanta luce di Verità.
dalla Legenda Maior di Santa Caterina da Siena, scritta dal beato Raimondo da Capua, Cantagalli, Siena, 1994, pp. 97-106
(preso qui)
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