Meditazione
su Socrate
"Che
cosa, Socrate, ad Atene hai fatto loro, se ti hanno innalzato un monumento
d'oro, dopo averti avvelenato?..."
C.K. Norwid, Che cosa, Socrate
Socrate
era un aristocratico, amava cose inutili, lontane, quelle che le masse e i
politici disprezzano. Dava, invece, scarsissima importanza agli oggetti dai
quali la gente fa dipendere il proprio destino. Per questo Socrate era libero
come pochissimi lo sono. Non si piegò davanti alla forza delle cose immediate.
Il verdetto dei giudici, con il quale lo condannarono a morte, distrusse loro e
non il Saggio di Atene. Essi ne erano coscienti sin dall'inizio; il processo e
la condanna di Socrate devono aver scosso gli ateniesi, dato che dal 399 Le
Nuvole di Aristofane non sono state più messe in scena.
Socrate
si rendeva perfettamente conto di vivere nella caverna degli schiavi, allegoria
di quanti, incatenati alle loro opinioni e ai loro pre-giudizi, riducono la
conoscenza ai ragionamenti che identificano con i calcoli.
Costoro,
non essendo sicuri del valore conoscitivo di tali operazioni, accettano come
verità nella vita sociale ciò che risulta dal sorteggio oppure dalla votazione.
Calcolano perfino l'uomo, come se fosse oggetto tra gli altri oggetti:
accettando come norma inviolabile il responso della "maggioranza" si
attinge l'energia indispensabile per poter continuare a calcolare... In tal
modo, poiché nella caverna la verità degli esseri è sostituita dalle loro
ombre, tutto degenera in politica, che a sua volta diventa demagogia di chi
aspira al potere. Nella caverna politica dominano coloro che sono capaci di
conquistare il cosiddetto consenso; per poterlo ottenere, si adeguano alle
voglie più immediate delle masse o dei forti nel calcolare. Spesso questa
relazione sociale "demagogo-popolo" viene chiamata democrazia.
Dove
non c'è la verità, la cui conoscenza darebbe ragione a chi la conosce anche se
fosse solo contro tutti, la quantità governa ogni cosa e tutto viene misurato
con il criterio della quantità.
Laddove
non c'è la verità, non c'è neppure il bene, sostituito dalla forza come
principio di soluzione delle controversie.
Nella
caverna non siamo condotti, ovvero educati, da coloro che Socrate avrebbe
definito competenti, cioè da quelli che s'intendono dell'uomo come uomo. Chi
vuole addestrare un cavallo, non lo affida al calzolaio oppure all'opinione
della maggioranza, ma a colui che di cavalli se ne intende. Eppure nel caso
dell'uomo, diceva Socrate, ci comportiamo come se fosse l'opinione attuale
della maggioranza a decidere chi sia l'uomo e chi egli debba essere. Nella
condizione della caverna, la quantità è divenuta divinità statale. Così accade
frequentemente che taluni pieghino davanti ad essa perfino le loro teologie.
Socrate, che non le sottomise la propria coscienza morale, e per questo dovette
morire, avrebbe molto da dire a tanti teologi di oggi.
"Dunque,
mio ottimo amico, non dobbiamo affatto curarci di ciò che sul nostro conto dirà
il mondo, ma di ciò che dirà chi s'intende del giusto e dell'ingiusto, questi
solo e la verità stessa" (Critone, 48 a).
Perché
uno possa servire l'uomo, dovrebbe prima sapere chi egli sia. Il calzolaio
conosce l'essenza delle scarpe, gli altri sanno solo usarle. Colui che non
conosce l'uomo, sa solo usarlo.
Chi
è competente riguardo all'uomo? Chi sa qual è la sua verità? Cosa significa
conoscere l'uomo, sicché uno possa essere libero dall'opinione della
maggioranza attuale e non essere giudicato da essa, anche se questa lo
condannasse a morte? Solo un tale uomo, se c'è, si intende di giustizia, di
come renderla alla verità dell'essere umano. Egli scopre dentro di sé qualcosa
che gli permette di giudicare tutto; solo l'uomo istruito nella verità è
giudice della realtà. Chi poi non segue un tale competente riguardo all'uomo,
avverte Socrate, distrugge se stesso (Critone, 47 d).
È
chiaro che essere competente riguardo all'uomo significa essere soggetto,
soggetto che giudica: gli oggetti, invece, sono giudicati. La soggettività
dell'uomo si esprime in questa competenza. Quindi, perché sia possibile essere
soggetto, occorre che ci sia la verità dell'uomo. Senza la verità, infatti, non
è possibile la competenza come tale. Intendersi dell'uomo significa intendersi
della verità che lo costituisce. In conseguenza, solo colui che diventa ciò che
egli è, vale a dire solo colui che è soggetto, un essere libero, si intende
dell'uomo. "Conosci te stesso!" significa: diventa te stesso! Sii
soggetto! Sii giudice! Giudice dei giudici!
Non
è facile per l'uomo conoscere l'uomo. Noi cristiani sappiamo bene che senza la
rivelazione della Persona Divina di Cristo saremmo condannati a costruire
opinioni, diverse ipotesi sul tema di noi stessi. Saremmo tutto essendo niente.
Socrate
ammetteva onestamente che non conosceva l'uomo; "so di non sapere
nulla". Ma Socrate desiderava conoscerlo. E questo desiderio doveva aver
già un valore conoscitivo, perché Socrate era libero dalle opinioni sul
problema dell'uomo; la libertà è dalla verità. Dunque, il desiderio socratico
sarebbe conoscenza? Quindi, che cos'è la verità dell'uomo, se il desiderio di
essa già ci rende liberi? Questa verità sarebbe forse così grande che possiamo
solo desiderarla? Sarebbe più grande di noi stessi?
Chi
desidera, cerca. In Socrate, dopo che ebbe udito il responso dell'oracolo di
Delfi, avvenne un cambiamento essenziale. L'oracolo aveva infatti detto che
nessuno era più saggio di Socrate. Il filosofo di Atene si stupì, perché aveva
la certezza di non saper nulla. Sapeva solo questo. Niente di più. Ma
desiderava molto di più. In conseguenza il suo desiderio della verità, la sua
sete di essa, si esprimeva nel modo particolare di porre domande sull'uomo.
Socrate
viveva delle domande intorno a quei beni, privo dei quali l'uomo cessa di
essere se stesso; cercava così di conoscere l'essenza della giustizia,
l'essenza del coraggio (senza il quale l'uomo non può essere giusto), l'essenza
della politica (non del gioco di potere fra i partiti) e così via. Poneva
domande sulla verità e sul bene senza di cui l'uomo può essere tutto tranne se
stesso; e proprio a queste domande non sapeva dare risposte. Non sapeva cosa
c'era dentro l'uomo. E solo questo sapere riteneva meritasse il titolo di
saggezza. Allora, cosa intendeva l'oracolo dicendo che Socrate era il più
saggio tra gli uomini? Non mentiva, non poteva farsi beffe di lui; la menzogna
e le beffe non convengono alla divinità.
Socrate,
indirettamente obbligato dall'oracolo, cominciò a visitare i suoi conoscenti
invitando quanti pensavano di saper qualcosa a definire l'essenza di quelle
cose la cui conoscenza costituisce la saggezza della persona umana. E cosa
accadde? Le definizioni degli "esperti" erano pure costruzioni,
lontane dalla realtà che intendevano evocare. Gli "esperti"
conoscevano soltanto ciò che essi stessi, come avrebbe detto Kant, avevano
prodotto; conoscevano le proprie opinioni.
Ognuno
di noi è il più saggio tra gli uomini, solo che sono pochi che rispondono con
le domande socratiche a questo obbligo di diventare ciò che siamo. Infatti,
pochi sono quelli che vogliono ascoltare la voce che sorge da ciò che è dentro
l'uomo.
Socrate
vedeva l'insensatezza di sottomettersi alle opinioni. Non sottomettendosi ad
esse, non essendo cioè schiavo, Socrate non si ribellava; egli non reagiva agli
stimoli, ma conviveva con la realtà. Proprio per questo egli non scappò dalla
prigione. Socrate era libero.
Dunque,
nessuno dei conoscenti sapeva chi è l'uomo; ma Socrate era il solo tra loro a
sapere di non saperlo. In conseguenza gli altri non desideravano conoscere la
verità, bastava a loro l'opinione di moda che imponeva che cosa oggi l'uomo doveva
diventare. Solo Socrate, desiderando questa conoscenza, poteva sensatamente
porre domande sull'uomo.
Ciò
che il suo desiderio sapeva poteva venire espresso solo in domande. Le domande
non solo chiedono come stanno le cose, ma anche pregano. Il vero filosofo pensa
con l'aiuto di esse; chiede e prega, perché tocca il mistero della realtà
stessa. Il filosofo che non pone tali domande non pensa. Il pensiero debole è
un pensiero privo di domande che pregano; esso non nasce dal meravigliarsi
dell'uomo pontefice della presenza dell'infinito in ciò che è, ma è costruito
dal "semplice operaio" nella sua relazione di flirt con il tempo e
con l'effetto immediato.
Platone
contrapponeva al "semplice operaio" il pontefice cioè quell'uomo che
costruisce un ponte tra il tempo e l'eternità, tra l'immediato e
l'escatologico. Solo il pontefice, che nel finito domanda l'infinito, pensa
adeguatamente alla realtà.
Il
pensiero debole non domanda; l'uomo debole non chiede e non prega, ritenendo di
poter costruire tutto e di imporre se stesso alla realtà.
Socrate
non imponeva se stesso a niente e a nessuno. E proprio in ciò consisteva la sua
competenza riguardo alla persona umana e ai suoi problemi. La sua
"ignorantia" era "docta". Tanto più "docta"
quanto più si rendeva chiaramente conto che l'uomo non si identifica con
nessuna definizione umana. Definire le cose e a maggior ragione definire l'uomo
costituisce un proprium di Dio. Quanto meglio lo sapeva, tanto di più era
vicino alla verità e quindi a se stesso: e quanto più le era vicino tanto
meglio si accorgeva di essere quasi condannato all'"ignorantia".
Vedendo così l'uomo, Socrate scopriva la propria solitudine in un mondo
dominato dagli "esperti", cioè da possessori di conoscenze, ma nello
stesso tempo si sentiva emancipato dai loro artifizi grazie al suo desiderio di
essere nella verità. Questo desiderio costituiva la sua libertà.
Ogni
uomo in quanto è il più grande tra gli uomini vive nella solitudine che è la
sua libertà, perché chi desidera la verità trascende il mondo attuale e il
proprio pensiero calcolatore cercando il Pensiero di Dio. E il pensiero di Dio
non è debole; esso è creativo. L'uomo socratico pensa fortemente, cioè
creativamente, perché pensa con l'aiuto del desiderio di conoscere quel
Pensiero forte come è quello di Dio.
Questa
è la soggettività dell'uomo! Una tale competenza riguardo all'uomo, quel
desiderio, quel voler essere nella verità del Pensiero forte, obbligava Socrate
a cercarlo. All'uomo la saggezza di Socrate diventa accessibile, quando tutte
le altre cosiddette saggezze, le saggezze del pensiero debole, lo deludono.
Proprio quando si frantuma in frammenti tutto ciò che abbiamo pensato
debolmente di noi stessi, cominciamo a domandare del nostro futuro, oppure, in
altri termini, cominciamo a domandare chi siamo. Domandando così, preghiamo.
Porre
simili domande significa ri-nascere; insegnare agli altri a porle significa
aiutarli a loro volta a ri-nascere. Ri-nasce solo chi pensa e pensa solo chi
cerca quel Pensiero forte che è il Pensiero creatore. Allora rinascere
significa ricordarsi di se stessi, ricordarsi cioè della definizione divina che
ci permette di essere noi stessi e ci difende contro la possibilità di essere
tutto e niente. Tale è, a mio parere, il senso dell'anamnesi platonica e del
metodo maieutico di Socrate. La domanda "chi sei?" che risulta
dall'obbligo del "conosci te stesso!" provoca negli uomini la
rinascita dell'Uomo di cui ognuno di noi è gravido. Questa domanda provoca
negli uomini l'epifania del sacro di cui ognuno è desiderio.
In
tal modo Socrate insegnava a pensare paradossalmente ciò che è paradossale,
vale a dire pensare l'uomo. Per lui pensare significava cercare con le domande
la realtà presente nel desiderio dell'uomo, senza la quale l'uomo non è più
uomo. In un certo senso Socrate cercava ciò che aveva già trovato, altrimenti
non avrebbe potuto cercarlo. La verità dell'uomo, di quel paradosso, di quella
coincidentia oppositorum, quale è la coincidenza di finito e infinito, può
essere conosciuta solo in quanto è desiderata e cercata, perché essa non ci
appartiene, siamo noi che le apparteniamo, per cui la verità dell'uomo non può
venire mai strumentalizzata, cioè ideologizzata. È il finito che ritorna
all'infinito e non viceversa; la riduzione dell'infinito al finito fatta dai
politici che sono solo politici distrugge l'uomo; essa distrugge il suo pensare
e il suo desiderare.
Cercare
l'infinito, perduto e dimenticato - l'anamnesi di Platone -costituisce
l'essenza del lavoro. "Conosci te stesso!" significa: lavora! pensa!
desidera! Il pensiero debole è solo un andirivieni mosso dai capricci e mai un
lavoro.
Socrate
sapeva che la verità è radicata nel divino e che allora definire le cose
significa sforzarsi di intravvederle dal punto di vista divino, non nostro. Di
conseguenza cercare la verità significa anzitutto disporsi ad un ascolto; forse
la Divinità potrebbe decidere sovranamente di rivelare la verità sul nostro
proprio conto. "Che cosa è mai dell'uomo la sapienza", scrisse Goethe
(Ifigenia 2, 1 VI, 169) "se non ascolta attento la volontà dell'altro?".
Gli
uomini di una volta ascoltavano querce, uccelli e sorgenti. Socrate, che non si
interrogava tanto sull'arché del cosmo quanto su quella dell'uomo, stava con le
orecchie tese verso se stesso. Così ascoltando era presente nelle sue parole e
per questo esse non erano trappole, ma doni.
Stava
in ascolto sperando che qualcuno dentro di lui parlasse della verità dell'uomo.
Questa voce potrebbe essere una specie di traccia del Divino agognato
dall'uomo. Il cacciatore guardando le impronte di un animale, vive l'obbligo di
andare in questa e non in quell'altra direzione.
"In
me si verifica qualcosa di divino e di demonico ... E questo, che s'è
manifestato in me sin da fanciullo, è come una voce che quando si fa sentire mi
dissuade sempre da ciò che sto per fare, ma non mi spinge mai ad agire"
(Apol. 31 g). Questa voce s'oppose alla partecipazione di Socrate alla vita
politica, lasciandogli aperte tutte le altre possibilità, che costituiscono ciò
che Socrate chiamò agire in privato. Senza una tal "sorte privata"
scelta nel silenzio della saggezza (cfr. il mito di Er nella Repubblica), prima
o poi l'uomo si perderà nel gioco dei partiti.
La
coscienza dissuadendolo dal desiderare alcune cose e dal compiere alcune azioni
perciò stesso obbligava la sua libertà a cercare la verità. È così che la
libertà viene resa se stessa, cioè libertà. Infatti la saggezza di Socrate si
manifestava nelle sue domande che erano sempre le più lungimiranti. Con il loro
aiuto, Socrate usciva dalla caverna delle opinioni; diventava libero grazie e
per la realtà desiderata... La verità era data ed affidata alla sua speranza
presente nel suo desiderio. Attraverso la speranza camminava sulla strada dei
piccoli beni realizzati da lui quotidianamente in vista di una definitiva
pienezza. Condotto dalla speranza di questa futura pienezza, libero cioè
dall'immediato, conduceva altri verso di essa; svegliando la speranza negli
altri, svegliava la loro libertà. Socrate era il pedagogo della speranza e
della libertà. Facendo piccoli beni si abituava e abituava gli altri a quel
grande Bene dell'eternità.
La
speranza forse non ragiona, ma essa senza dubbio com-prende la verità
abbracciandola, come la terra com-prende il grano messo in essa. La speranza
del finito, nel quale è caduto il grano dell'infinito, è piena di Futuro
malgrado le tenebre attuali; solo la speranza le dissipa esprimendosi in quel
desiderio e in quelle domande che scandalizzano ogni Atene. Solo la speranza sa
cosa c'è dentro l'uomo.
È
alla speranza, sembra dirci Socrate stesso, che si rivela la Divina Definizione
dell'uomo e del cosmo, la Definizione, che l'uomo non è in grado di ripetere,
anche se in un certo senso ne è capace. L'uomo può solo camminare verso la
Definizione Divina di se stesso. È una strada verso l'infinito; andando verso di
esso, l'uomo è libero dal finito. Proprio in questa libertà per la Definizione
Divina dell'uomo e del cosmo si costituisce la soggettività della persona
umana. Essa si rivela nella vita quotidiana dell'uomo, non in fugaci e
privilegiati momenti, ma nella totalità del suo essere ed agire; la
soggettività dell'uomo risplende nella totalità della sua vita come un cielo
rischiarato da un fulmine da oriente fino ad occidente.
In
conseguenza di tutto ciò, la verità non dovrebbe essere tanto definita come
adaequatio intellectum cum re, ma piuttosto come adaequatio spei et amoris,
adaequatio desiderii cum transcendentia Futura; cioè con quella realtà infinita
da cui proviene quel chiarore grazie al quale l'uomo può esistere non secondo
la logica della caverna, ma secondo ciò che gli è stato affidato. "Si è
avvicinato il Regno dei cieli; è dentro di voi" (cfr. Lc 17, 20-21). Il
Regno dei cieli è stato affidato all'uomo. La sua libertà è regale.
Oggi
diremmo che una tale definizione della verità indica la persona umana, cioè
quell'essere aristocratico, inutile, che ama, spera e crede nelle cose lontane,
oggi proprio inutili..., senza le quali non c'è il Futuro per l'uomo. Questo
Futuro lo raggiungono sole le domande e il desiderio da cui sgorgano.
Con
domande tali da svegliare negli uomini il desiderio di un Futuro non utile
nell'oggi Socrate li aiutava a risorgere, insegnandogli ad ascoltare la
Divinità e ad assumere il senso autentico del silenzio di Dio nella loro
coscienza. Il silenzio di Dio, che s'interrompe solo per vietare il male e che
mai imponeva questo o quell'altro bene, confermava a Socrate il valore della
libertà dell'uomo. Chi sa ascoltare il silenzio della coscienza, sa leggere in
ciò che è il volto di Dio. Questo volto si riflette in ogni essere come in un
pozzo profondo da cui attingere acqua. Basta chinarsi. L'acqua non sgorga dal
nulla; il nulla riflette al massimo il volto dell'uomo. Per questo solo
dell'albero del nulla è vietato mangiare. La coscienza morale che ci vieta di
assolutizzare il finito ci difende dai volti degli uomini, cioè dal loro
dispotismo. In tal modo essa rivela la nostra appartenenza alla verità che ha
carattere divino. Le parole di S. Paolo (Rm 2, 14-15) suonano socraticamente:
"Quando i pagani, che non hanno la legge, per natura agiscono secondo la
legge, essi, pur non avendo legge, sono legge a se stessi". Ciò che
"la legge esige, è scritto nei loro cuori come risulta dalla testimonianza
della loro coscienza". Questa legge deriva dal Futuro come dal suo Principio
ed è protesa verso il Futuro come verso la sua Fine. Senza la speranza, l'uomo
non può però leggerla. La speranza costituisce quindi il proprium dell'uomo in
quanto tale. Chi la distrugge, distrugge il pensiero rendendolo pensiero
debole, vale a dire una divagazione che può andare in direzioni perfino
opposte. Il pensiero debole è un pensiero senza la legge, perché è senza la
speranza.
Socrate
insegnava agli uomini a pensare forte, cioè a leggere "la legge non
scritta", la legge della speranza posta in ciò che è bello e
immediatamente non utile. Socrate è fratello di Antigone.
Ciò
che è bello e immediatamente non utile è pericoloso. Chi ama la bellezza
rischia perfino la vita. La legge della speranza è una legge diversa dalle
leggi delle divinità statali chiuse nelle definizioni umane che cambiano quasi
ogni giorno. Introducendo nello Stato la Divinità che prende la parola nella
coscienza dell'uomo, e che non permette di essere posta accanto alle altre
divinità venerate dallo Stato, Socrate diventò pericoloso per i politici
dell'immediato. Questi, infatti, non ascoltano la coscienza morale e non
intravvedono la bellezza e la paradossale necessità delle cose inutili per
tutto ciò che è utile. Di conseguenza, essi sono parziali. Invece la Divinità
che Socrate sveglia nelle coscienze dei cittadini esige l'uomo intero.
Tale
è la nostra libertà. Essa non c'è laddove non c'è posto per adorare Dio. E la
possibilità di adorare Dio non c'è laddove non c'è posto per la coscienza
morale, che costituisce il luogo primordiale del dialogo con Dio. Proprio in
questo dialogo si realizza la libertà dell'uomo. Colui che non dialoga con Dio,
dialoga con il faraone, oppure con la maggioranza parlamentare, che talvolta
presumono di poter decidere del bene e del male, del vero e del falso.
Socrate
si era affidato pienamente alla Divinità presente nella coscienza; proprio
grazie a ciò, non essendo un puro politico, era un cittadino migliore degli
altri. Era diverso da loro, perché dimorava più lontano. All'ordine
"smetti di filosofare! Vivi come noi viviamo! Unisciti a noi! Sta
zitto!" rispondeva: "Ateniesi, io vi voglio un bene dell'anima; però
obbedirò piuttosto al Dio che a voi; e sino a che avrò respiro e forza, non
smetterò di filosofare, d'esortarvi, di esporre il mio pensiero a chiunque di
voi io incontri, dicendogli, come son solito: o il migliore degli uomini, tu,
Ateniese, appartenente alla città più grande e più illustre per sapienza e
vigore d'animo e di mente, non arrossisci d'occuparti delle ricchezze come
averne quante più puoi, e del credito e degli onori, mentre dell'intelligenza,
della verità e dell'anima, per far che sia quanto migliore è possibile, non ti
curi punto né ti dai alcun pensiero?" (Apol. 29 d).
Socrate
era migliore degli ateniesi perché viveva ad Atene, ma non viveva secondo
Atene. Viveva secondo il Futuro di Atene oggi inutile, la cui presenza in ciò
che è oggi vieta la strada verso il nulla.
Essere
libero, sognare delle cose belle, ma politicamente inutili, donarsi alla verità
e non al nulla, ci espone al rischio mortale. Prima di tutto ci condanna ad una
vita difficile, perché ci obbliga ad avere di meno ed ad essere di più. Socrate
tranquillamente guardava la sua casa "trascurata" e presentò ai
giudici "un testimone degno di fede... la mia povertà" (Apol. 31 c).
La verità non si vende e non si compra. Essa non è una merce; esige dall'uomo
la speranza ed esclude il calcolo che mira all'utile immediato.
Vivere
nella verità, ed è questo che ci insegna Socrate, significa vedere tutto
nell'orizzonte delineato dalla speranza che può essere compiuta soltanto da un
atto di sovrana libertà del Divino. Qui, nella corte, disse Socrate, "mi
son lasciato cogliere per mancanza, è vero, non però di discorsi, ma d'audacia
e d'impudenza" (ibidem, 38 d). Il difficile è "non già schivare la
morte, ma assai più difficile sottrarsi alla malvagità, che corre più veloce
della morte" (ibidem, 29 b). "So che ben pochi sono e saranno di
questo parere", diceva a Critone, ma "continuiamo per questa via,
poiché è quella per cui Dio ci guida" (Critone 49 d, 54 e). In quante università
chiamate cattoliche questo pensiero di Socrate sarebbe preso sul serio?
Talvolta
chi è più ricco nell'essere deve morire per rendere testimonianza alla
Definizione Divina dell'uomo, ubbidendo alla "leggi non scritte", ma
presenti in lui. La coscienza non dissuade l'uomo dal rendere questa estrema
testimonianza. Si tratta quindi di una "buona morte". La coscienza di
Socrate taceva al cospetto della corte, benché sapesse cosa lo aspettava.
Accusato di essere ateo, perché non riconosceva divinità statali, ma solo Dio
presente nella coscienza, accusato di corrompere in tal modo i giovani, fu
condannato a morte e morì.
Per
un uomo di coscienza era e continua a essere difficile vivere in uno Stato che
tende a divinizzare le sue strutture legislative oppure il proprio liberalismo.
In tale Stato ogni Socrate sarà accusato di "ateismo", perché entra
in queste strutture o in questo liberalismo non da solo, ma con quel daimonion,
il dialogo che, svolto nella coscienza, lo rende libero, vale a dire sacro ed
inviolabile. Nella misura in cui vive nell'incontro con Dio presente nella sua
coscienza l'uomo giudica gli dei statali. Allo Stato non piace essere
giudicato. Non conoscendo la coscienza e sostituendola con la cosiddetta
volontà della maggioranza o con quella del più forte, accusa i Socrate di
introdurre "un dio sconosciuto" che non riconosce gli dei già
conosciuti e riconosciuti dal pensiero puramente politico in cui degenera il
pensiero debole, privo di speranza.
Lo
Stato ha delle teologie, Socrate ne ha solo una, la teologia. Avrebbe perciò
molto da dire anche ai teologi di oggi, che sostituiscono il pensare nel
dialogo con Dio presente nella coscienza con le opinioni fatte dalla loro
ragione. Forse non si rendono conto che in tal modo sottomettono tutto, perfino
Dio stesso, a Cesare. Nel nome di lui parlano di liberazione dell'uomo. Di
conseguenza ad un faraone dicono "no!" e ad un altro "sì!".
Un
giorno gli scribi e i sommi sacerdoti "mandarono informatori che si
fingessero persone oneste, per coglierlo in fallo nelle sue parole... 'Maestro,
sappiamo che parli e insegni con rettitudine (...) È lecito che noi paghiamo il
tributo a Cesare?' Conoscendo la loro malizia, disse: 'Mostratemi un denaro: di
chi è l'immagine e l'iscrizione?' Risposero: 'Di Cesare'. Ed egli disse:
'Rendete dunque a Cesare ciò che è di Cesare e a Dio ciò che è di Dio'".
(Luc 20, 20-25).
Per
poter comprendere la risposta di Cristo, ricordiamo che chi voleva fare
un'offerta nel tempio doveva cambiare la moneta dello Stato in quella del
Tempio. La realtà, tutta la realtà, inclusa quella politica, deve essere
offerta a Dio. Ma per poter essere offerta a Lui prima deve essere cambiata,
trasfigurata così da poter essere omogenea al tempio. Anche la politica può e
deve essere cambiata così. Se no, rimarrà qualcosa d'inumano, cioè di profano
che appartiene solo a Cesare. Ma Cesare non è l'orizzonte dell'uomo, dunque non
lo è neanche per la politica adeguata alla persona umana. Il mondo sarà
distrutto, se lo lasceremo nelle mani dei politici il cui orizzonte si trova in
Cesare. Il mondo, per poter essere salvato, deve essere continuamente cambiato,
trasfigurato dal nostro lavoro, dalla nostra metanoia. Senza la metanoia tutto
sarà dato a Cesare e l'uomo rimarrà in Egitto. Se non vi pentite... se non
cambiate il vostro pensiero debole nel Pensiero Forte... perirete!
Socrate
che vedeva tutto alla luce della coscienza e del dialogo che la costituisce,
esisteva in un mondo cambiato, cioè diverso da quello in cui esistevano gli
altri; per lui anche la politica era "servizio divino". Si opponeva
perciò ai giocatori politici non politicamente o ideologicamente, ma
spiritualmente. È l'unico modo di opporsi vittoriosamente alla dittatura della
maggioranza faraonica o a quella di un faraone. La mistica del dialogo svolto
nella coscienza morale costituisce la più grande forza politica proprio perché
non è politica. Il "servizio divino" di Socrate rende il più grande
servizio proprio alla vita pubblica. Senza questo servizio nessuna forma di
governo sarà degna della persona umana; come Socrate disse: "non sarà
degna di una natura filosofica" (Republ. VI), cioè dell'amico della
saggezza. Sarà quindi una stupidità pericolosa. Tutto ciò non vuol dire che
bisogna fuggire dallo Stato. Anzi, bisogna entrarvi per cambiarlo. Socrate
avrebbe detto: per convincerlo. Convincilo, cambialo per poter renderlo a Dio,
altrimenti non ti rimane che arrenderti a Cesare e in tal modo rendere
ingiustizia anche a lui.
Poche
sono le persone che potrebbero governare, perché poche sono quelle "che
degnamente si applichino alla filosofia" (Repub. X). In questo mondo
queste poche persone vivono come se fossero cadute tra belve che non fanno
"per così dire nulla di sano nella vita politica" (ibid.). Eppure
vivendo la sorte privata (il mito di Er), animati da una bella speranza,
cambiano il mondo, perché "convivendo con ciò che è più divino ed
ordinato" (Repub. VI, XIII)diventano essi stessi ordinati, cioè divini e
trasportano "privatamente e pubblicamente nei costumi sociali" ciò
che vedono "lassù" (ibid.). Sono come "quegli artisti che
s'ispirano all'esemplare divino" (ibid.).
"Ed
ora a quale di questi due modi di prender cura dello Stato tu m'esorti? Dimmelo
chiaro. A quello che consiste nel fare ogni sforzo perché gli Ateniesi
diventino quanto si può migliori, come farebbe un medico; ovvero come chi è
disposto a servirli e trattarli così da riuscir loro sempre gradito? (...) Oh!
non ripetermi ciò che mi hai già detto più volte: che altrimenti chiunque vuole
potrà uccidermi, affinché io a mia volta non ti ripeta che, se mai, sarà un
ribaldo che uccide un uomo onesto. E non ripetermi nemmeno che mi spoglierà,
ove pure qualcosa trovi da portarmi via, affinché io a mia volta non ti ripeta
ch'egli non se ne gioverà, ma come ingiustamente m'avrà spogliato, così, anche
ingiustamente si servirà di quello che m'avrà tolto; e se ingiustamente,
turpemente; e se turpemente, malamente". (Gorgia 521 a b c LXXVI).
Negli
Stati che non nascono dalla coscienza di Giuseppe, dalla coscienza di Maria,
dalla coscienza di Giovanni, nelle quali si realizza la coincidenza degli
opposti, cioè del finito e dell'infinito, gli uomini giusti soffrono. Socrate
sapeva soffrire. "Dolorosamente mi sovviene di come Socrate, sentendo
dolore alle caviglie per le catene che lo legavano, cercò di approfittare di
questo per indagare il rapporto del dolore con la vita. Ancora non sapeva
chiaramente... che la maggior parte delle sofferenze vengono affinché la verità
e la sua conoscenza non vengano fermate" (C.K. Norwid, Lettera a M.
Sokowski, del 2.VIII. 1865).
Nel
legame con la Divinità presente nella coscienza, nel camminare per tutte le
strade di ciò che è, tranne questa, la sola sbagliata che conduce verso il
nulla, consisteva l'eudaimonia di Socrate. Essa gli proveniva dal fatto di
trovarsi, nei rari istanti in cui la bellezza si rivela, "in contatto col
vero" (Simposio, 212 a), cioè con la realtà alla quale l'uomo appartiene e
verso la quale deve camminare come se ritornasse alla casa familiare del Padre.
L'uomo non appartiene al nulla. L'infelicità del pensiero debole, invece,
proviene dal fatto che l'uomo rende se stesso nihilo adscriptus. Essere felici
significa essere se stessi, mentre l'infelicità è effetto dell'alienazione
della propria natura, che essendo una realtà futura, ma già presente, è affidata
alla nostra speranza, alla nostra fede e al nostro amore.
L'infelicità
quindi risulta dalla disperazione, dalla mancanza della fede e dell'amore.
L'infelicità si veste di tante apparenze di felicità.
Uno
dei segni essenziali che non siamo felici è la voglia di evitare ad ogni costo
il dolore; gli uomini infelici non sanno soffrire. Solo colui che guarda
lontano sa soffrire perché è felice; non cerca la salvezza nell'immediato
utile. Nel più lontano si trova la fonte della bellezza con cui solo gli aristocratici
sono capaci di misurarsi. "Chi una volta si è misurato con il bello sarà
pure bello per lui soffrire quanto di dolore vi aderisce" (Fedro 274 a b).
La
vita socratica è altamente drammatica. L'uomo che cerca una saggezza più grande
delle proprie opinioni e della propria reattività rivela la stupidità di tutti.
Si accolla un compito che reca in sé il rischio della morte. Ma nell'ambito
dello Stato, ripetiamo le parole di Socrate, non esiste un servizio altrettanto
prezioso. È un "servizio divino". Ed è da esso che zampilla la
felicità, cioè quell'eudaimonia deldialogo con il "Dio buono"
presente nella coscienza. E sempre così, il finito viene colto di sorpresa
dall'infinito ed è per questo che il finito gode di eu-daimonia. Il finito
visitato dall'infinito si rallegra; ma quanto di più gode l'amicizia
dell'infinito tanto di più rischia la morte. Nell'eudaimonia il finito trema,
perché si rende conto di dover rispondere alla chiamata dell'infinito, e venire
giudicato alla luce di essa. Coloro che si lasciano giudicare dal finito non
tremano: gli schiavi hanno soltanto paura dei padroni. L'uomo libero invece
trema al pensiero di non essere all'altezza della verità. È in questo tremore
che si esprime il realismo aristocratico di Socrate, il realismo che mettendo
radici nell'eternità esclude flirt con il tempo.
Gli
amici dei finito, gli amanti del tempo non corrono il rischio della morte che è
sacrificio.
Chi
va incontro ad una sorte migliore? Gli amanti del tempo oppure gli amici
dell'infinito? Le ultime parole di Socrate condannato a morte, rivolte ai
giudici ingiusti, furono queste: "Ma è già l'ora d'andarsene, io a morire,
voi a vivere. Chi di noi vada incontro alla sorte migliore, a tutti è ignoto,
fuorché alla divinità" (Apol. XXXIII). E Dio, disse loro Socrate, non
mente e non delude, perché è Dio.
Meeting
per l'amicizia tra i popoli
26
agosto 1989
(preso qui)
Nessun commento:
Posta un commento