Dalle Lettere di S. Elisabetta della Trinità
Lettera 268 - : Alla signorina Francesca de SourdonSembra scritta perché io la legga e rilegga tutti i giorni.... e' stata scritta per me?
Ecco finalmente Elisabetta che viene a mettersi con la sua
matita accanto alla sua cara Francesca. Dico con la matita perché con il col
cuore siamo vicine ormai da tanto tempo, nevvero?, e rimaniamo tutt’e due fuse
insieme. Quanto amo i nostri
appuntamenti della sera. È come il preludio di quella comunione che si
stabilirà fra le nostre anime dal cielo alla terra. Mi sembra di essere china
su di te come una mamma sul figlio della sua predilezione. Alzo gli occhi a
guardare Dio e poi li riabbasso su di te come per esporti ai raggi del suo
amore. Mia cara Francesca, non gli dico delle parole per te. Io sento ch’Egli
mi comprende tanto più così, nel mio silenzio. Mia cara bambina, vorrei essere
santa per poterti aiutare fin d’ora, in attesa di farlo lassù. Che cosa non
soffrirei per ottenerti quelle grazie di
forza di cui hai bisogno.
Ora vorrei rispondere alle tue domande. Cominciamo subito
dall’umiltà.
Su questo argomento ho letto, sul libro di cui ti ho parlato,
delle pagine magnifiche. Il pio autore dice che nulla può turbare l’umile, che
egli possiede la pace invincibile, perché s’è precipitato in un tale abisso che
nessuno andrà a ricercarlo fin là.
Dice anche che l’umile trova il gusto più grande della sua vita
nel sentimento della sua impotenza di fronte a Dio.
Mia cara piccola Francesca, l’orgoglio non è una cosa che si
distrugge con un bel colpo di spada.
Senza dubbio certi atti di umiltà eroica, come se ne vedono
nella vita dei santi, gli danno un colpo se non mortale, almeno da affievolirlo
considerevolmente, ma, fuori di questi casi, è ogni giorno che bisogna farlo morire.
«Quotidie morior», gridava S. Paolo - Muoio ogni giorno! -
questa dottrina di morire a se stessi, mia cara Francesca, che del resto è la
legge di ogni anima cristiana dacché il Cristo ha detto: «Se qualcuno vuol
venire dietro a Me, prenda la sua croce e rinneghi se stesso», questa dottrina
dunque che pare così austera, è invece d’una soavità deliziosa quando si guarda
al termine di quella morte, che è la
vita di Dio messa al posto della nostra vita di peccato e di miseria.
È ciò che S. Paolo voleva dire quando scriveva: «Spogliatevi
dell’uomo vecchio e rivestitevi dell’uomo nuovo secondo l’immagine di Colui che
l’ha creato».
Quest’immagine è Dio stesso.
Ti ricordi della sua volontà così formalmente espressa il giorno
della creazione: «Facciamo l’uomo a nostra immagine e somiglianza?».
Vedi se pensassimo di più
alle origini della nostra anima, le cose di quaggiù ci apparirebbero così
puerili, che non avremmo altro che disprezzo per esse. S. Pietro scrive, in una
delle sue Epistole, che «siamo stati fatti partecipi della natura divina» e S.
Paolo raccomanda di conservare fino alla fine questo cominciamento del suo
essere che Egli ci ha dato.
Mi sembra che l‘anima che
ha coscienza della sua grandezza, entri in quella santa libertà dei figli
di Dio di cui parla l’Apostolo, cioè che essa si trasferisca al di là di tutte
le cose e di sé stessa.
Mi sembra che l’anima più libera sia quella più dimentica di sé.
Se mi
si chiedesse il segreto della felicità, direi che sta nel non tenere più conto
di sé, nel negarsi ogni momento.
Ecco un buon modo di morire all’orgoglio. È come un prenderlo
per fame. Vedi, l’orgoglio si pasce dell’amore di sé.
Ebbene, bisogna che l’amore di Dio sia così forte, da spegnere
ogni amore di noi stessi.
S. Agostino dice che ci sono in noi due città, la città di Dio e
la città dell’io. Nella misura che la prima cresce, la seconda sarà distrutta.
Un’anima che vivesse nella fede, sotto lo sguardo di Dio, che
avesse quell’«occhio semplice» di cui parla il Cristo nel Vangelo, cioè quella
purezza d’intenzione che non mira che a Dio, quell’anima, mi sembra, vivrebbe
nell’umiltà e saprebbe riconoscere i doni che egli le ha elargito perché l’umiltà è verità.
Non s’approprierebbe di nulla, ma tutto
riferirebbe a Dio, come faceva la S. Vergine.
Cara Francesca, tutti i
movimenti di orgoglio che senti in te, non divengono colpe se non quando la
volontà se ne rende complice.
Se manca questo consenso, puoi soffrire molto, ma non c’è offesa
al buon Dio. Queste mancanze che ti sfuggono, come mi dici, senza quasi
accorgertene, denotano senza dubbio un fondo d’amor proprio, ma tutto ciò, mia
povera cara, fa parte in qualche modo di noi stessi. Quello che Dio ti domanda
è di non fermarti mai volontariamente in un pensiero d’orgoglio qualsiasi.
Questo è male.
Che se poi ti accadesse qualche cosa di questo genere, non ti
scoraggiare, perché è ancora l’orgoglio
che ti indispettisce, ma devi mostrare la tua miseria come la Maddalena ai
piedi del Maestro, e chiedergli che te ne liberi. È una gioia così grande per
il buon Dio vedere un’anima riconoscere la propria incapacità. Allora, come
diceva una grande Santa, l’abisso dell’immensità di Dio si trova di fronte
all’abisso del nulla della creatura e Dio abbraccia questo nulla.
Bambina mia cara, non è orgoglio pensare che tu non vuoi una
vita facile. Credo davvero che Dio voglia che la tua vita scorra in una sfera
in cui si respira aria divina. Credimi, ho una compassione profonda per le
anime che non vivono che della terra e delle sue banalità.
Penso che sono delle schiave
e vorrei dir loro: «Scuotete questo giogo che pesa su di voi, che ne fate di
questi ceppi che vi incatenano a voi stesse e a cose inferiori a voi?».
Mi sembra che felici in questo mondo siano coloro che hanno
abbastanza disprezzo e dimenticanza di sé per scegliere la croce come loro
eredità.
Quando
si sa porre la propria gioia nella sofferenza, che pace deliziosa!
«Compio nella mia carne quello che manca alla passione di Gesù
Cristo per il suo corpo che è la Chiesa», ecco che cosa costituiva la felicità
dell’Apostolo! Questo pensiero mi perseguita e ti confesso che provo una gioia
intima e profonda a pensare che Dio mi ha scelto per associarmi alla passione
del suo Cristo, e questo cammino doloroso, che devo battere ogni giorno, mi
sembra piuttosto la strada della felicità.
Non hai mai vedute qualcuna di quelle immagini che rappresentano
la morte nell’atto di tagliare la messe con la sua falce? Ebbene, questa è la
mia condizione, così mi sento afferrare da lei.
Per la natura è talvolta penoso e t’assicuro che se mi fermassi
qui, non sentirei che la mai viltà e la mia sofferenza. Ma questo non è che lo sguardo umano e ben presto apro l’occhio della
mia anima alla luce della fede e la fede
mi dice che è l’amore che mi distrugge, che mi consuma lentamente, e la mia
gioia è immensa e mi abbandono a Lui come una preda.
Cara Francesca, per arrivare alla vita ideale dell’anima credo
che bisogna vivere del soprannaturale, cioè non agire mai «naturalmente». Bisogna prendere coscienza che Dio si trova
nel piu’ intimo di noi ed affrontare tutto con Lui. Allora non si è mai
banali, neppure facendo le azioni più ordinarie perché non si vive in queste
cose, ma si va al di là di esse. Un’anima
soprannaturale non tratta mai con le cause seconde, ma solo con Dio. Com’è
semplificata così la sua vita, come si avvicina alla vita degli spiriti beati,
com’è resa libera da se stessa e da ogni cosa! Tutto per lei si riduce
all’unità, quest’«unico necessario» di cui il Maestro parlava alla Maddalena.
Allora è veramente grande, veramente libera, perché essa ha
incluso la sua volontà in quella di Dio.
Mia cara Francesca, quando
si contempla la nostra eterna predestinazione, le cose visibili appaiono
spregevoli.
Ascolta S. Paolo: «Quelli che Dio ha conosciuto nella sua
prescienza, li ha pure predestinati ad essere conformi all’immagine del Figlio
suo». E non è tutto; vedrai, piccola mia, che tu sei del numero dei
«conosciuti».
«E quelli che ha conosciuto, li ha chiamati» – è il Battesimo
che ti ha fatto figlia d’adozione e ti ha segnato del sigillo della Trinità
Santa. –
«E quelli che ha chiamato, li ha pure giustificati» – e quante
volte tu lo sei stata attraverso il sacramento della Penitenza e tramite tutti
quei tocchi di Dio nella tua anima, dei quali neppure hai avuto coscienza. –
«E quelli che ha giustificati, li ha pure glorificati».
È ciò
che ti attende nell’eternità, ma ricordati che il nostro grado di gloria sarà
il grado di grazia nel quale Dio ci troverà al momento della morte.
Permetti a Lui di compiere in te l’opera della sua
predestinazione e per questo ascolta ancora S. Paolo che ti dà un programma di
vita. «Camminate in Gesù Cristo, radicati in Lui, edificati sopra di Lui,
consolidati nella fede e crescendo in Lui nell’azione di grazie».
Sì, figliolina della mia anima, cammina in Gesù Cristo, ti
occorre questa via larga, non sei fatta per i sentieri di quaggiù. Sii radicata
in Lui, e per questo sradicati da te stessa, facendo tutto come chi è pronto a
rinnegarsi ogni volta che si trova a tu per tu con se stesso. Sii edificata sopra di Lui, ben al di
sopra di tutto ciò che passa. Così in alto tutto è puro, tutto è luminoso. Sii consolidata nella fede, cioè non agire
che sotto la gran luce di Dio, mai secondo le impressioni o la fantasia.
Credi al suo amore, alla sua volontà di aiutarti Lui stesso nelle lotte che
devi sostenere, affidati al suo amore, a quel suo «eccessivo» amore, come lo
chiama S. Paolo.
Nutri
la tua anima dei grandi pensieri della fede che e rivelano tutta la sua
ricchezza e il fine per il quale Dio l’ha creata. Se
vivi in queste cose la tua pietà non sarà un’esaltazione nervosa come tu temi,
ma sarà vera. È così bella la verità, la verità dell’amore! «Mi ha amato e si è
immolato per me» [Gal 2,20], ecco, bambina mia, che cosa vuol dire essere nella
verità.
E poi, infine, cresci nel
rendimento di grazie. È l’ultima parola del programma, nell’altro che la sua
conseguenza. Se tu cammini radicata in Gesù Cristo, consolidata nella tua fede,
vedrai nel rendimento di grazie la dilezione dei figli di Dio. Io mi domando come possa non essere sempre
gioiosa in ogni sofferenza e dolore l’anima che ha sondato l’amore per lei che
è nel Cuore di Dio. Ricordati che Egli ti ha scelta in Cristo prima della
creazione per essere pura e immacolata al suo cospetto nell’amore, è ancora S.
Paolo che parla così, per conseguenza non temere la lotta, la tentazione.
«Quando sono debole – gridava l’Apostolo – è proprio allora che divento forte
perché abita in me la potenza di Dio».
Mi domando che cosa penserà la nostra reverenda Madre se vede
questo giornale. Non mi permetterà più di scrivere, perché sono d’una debolezza
estrema e mi sento venir meno ad ogni istante. Questa lettera sarà forse
l’ultima della tua Elisabetta che ha impiegato tanti giorni a scriverla, e
questo spiega la sua incoerenza. Eppure stasera non posso decidermi a
lasciarti. Sono qui sola, alle sette e mezzo della sera; la comunità è a
ricreazione ed io ho l’illusione di trovarmi già in paradiso dentro la mia
celletta, sola con Lui solo, portando la mia croce col Maestro. Cara Francesca,
la mia felicità cresce in proporzione della mia sofferenza. Se tu sapessi che
sapore ha per l’anima il fondo del calice preparato dal Padre dei cieli!
A Dio, mia diletta, non posso più continuare. Nel silenzio dei
miei appuntamenti tu indovinerai, comprenderai quello che ti dico. Ti
abbraccio, ti amo come fa una mamma con la sua fogliolina. A Dio, piccola mia;
che all’ombra delle sue ali Egli ti protegga da ogni male!
Suor M. Elisabetta della Trinità
Laudem gloriæ
(questo qui sarà il nuovo nome nel
cielo).
Un ricordo pieno di rispetto e tutto filiale alla tua cara mamma
e il più tenero affetto a M. Luisa
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