di Marco Ballarini (preso qui)
Annus horribilis, il 1864,
per Dostoevskij. Il 15 aprile muore la prima moglie e pochi mesi dopo, il 10
luglio, il fratello Michail, che lascia, oltre a una famiglia numerosa
completamente priva di mezzi, anche la rivista «Epocha» gravata di debiti per 25.000
rubli. Inizia così un'affannosa ricerca di denaro con emissioni di cambiali,
prestiti usurai, incontri con mediatori e uomini d'affari, a volte della
peggior specie, commissari di polizia, sempre a un passo dal sequestro della
sua proprietà.
«In ogni modo la terribile
tensione del 1864, quando Dostoevskij stampava "in tre tipografie in una
volta, non badava ai soldi né alla salute e alle forze, correggeva bozze, si
dava da fare coi collaboratori e con la censura, rivedeva articoli, cercava
quattrini, lavorava fino alle sei del mattino e dormiva cinque ore su
ventiquattro", non diede i risultati attesi» [1]. Anche a causa della
morte di A. Grigor'ev, uno dei più validi collaboratori, il livello della
rivista scade, gli abbonati se ne vanno, con l'inevitabile chiusura nell'estate
del '65.
Lo salva temporaneamente
un contratto capestro con uno speculatore letterario di nome Stellovskij, che
gli offre tremila rubli in cambio dei diritti su quanto già pubblicato e un
nuovo romanzo da consegnarsi entro l'inizio di novembre del 1866. In caso di
mancata consegna sarebbero passati allo Stellovskij anche i diritti di tutte le
opere successive[2].
Per sfuggire ai creditori
e potersi concentrare nel lavoro creativo Fëdor è costretto ad andarsene
all'estero, ma a Wiesbaden perde al gioco tutto quanto possiede, venendosi a
trovare in una situazione di vera indigenza [3].
Accanto ai problemi
personali, incombono quelli di una società non solo in evoluzione, ma in forte
tensione, con le tragiche conseguenze della riforma contadina e una crisi
monetaria che raggiunge l'apice proprio in quegli anni. In ebollizione,
naturalmente, anche le idee. Il fourierismo era sfociato nel nichilismo,
inaccettabile per Dostoevskij, che contrapponeva l'«anima viva» alla «logica»
di quanti volevano "organizzare" la società a spese della libertà
personale [4]. In questo clima nasce Delitto e castigo, il primo dei
"grandi romanzi", pubblicato a puntate sul «Messaggero russo» a
partire dal gennaio 1866.
Romanzo d'azione e di
suspence Delitto e castigo dura soltanto quattordici giorni, con uno
svolgimento, sul piano dei fatti principali, estremamente lineare. Uno
studente, con grandi progetti e pochissimi soldi, uccide una vecchia usuraia e
la sua innocente sorella, ma non regge al tormento della coscienza e confessa
il delitto prima a Sònja, una giovanissima prostituta, e poi, spinto dalla
ragazza, al giudice istruttore Porfirij. L'epilogo ha luogo in Siberia, ai
lavori forzati, nove mesi dopo.
NON CONSIDERÒ UN TESORO
GELOSO..
Ragazzina diciottenne, ma così minuta da sembrare ancora una bambina, bionda con due occhi celesti buoni e semplici da cui ci si sente quasi involontariamente attratti [5], un viso sempre un po' pallido e una voce assolutamente mansueta, Sònja si trova in una situazione incresciosa. Vive con il padre, l'ex consigliere Marmelàdov, che ha perso il lavoro una prima volta e si è quindi dato all'alcol e lo ha riperso poi definitivamente perché dedito all'alcol; e con una matrigna tisica che deve badare a tre bambini sempre affamati e piangenti. Sònja ha cercato di mandare avanti la famiglia con un lavoro onesto, ma la cosa non è stata possibile: fare la camiciaia non rende molto, anche lavorando tutta la giornata e parte della notte, e a volte si ricevono soltanto insulti invece di denaro.
Ragazzina diciottenne, ma così minuta da sembrare ancora una bambina, bionda con due occhi celesti buoni e semplici da cui ci si sente quasi involontariamente attratti [5], un viso sempre un po' pallido e una voce assolutamente mansueta, Sònja si trova in una situazione incresciosa. Vive con il padre, l'ex consigliere Marmelàdov, che ha perso il lavoro una prima volta e si è quindi dato all'alcol e lo ha riperso poi definitivamente perché dedito all'alcol; e con una matrigna tisica che deve badare a tre bambini sempre affamati e piangenti. Sònja ha cercato di mandare avanti la famiglia con un lavoro onesto, ma la cosa non è stata possibile: fare la camiciaia non rende molto, anche lavorando tutta la giornata e parte della notte, e a volte si ricevono soltanto insulti invece di denaro.
«Così, brutta fannullona,
te ne stai qui in casa con noi, e mangi e bevi e ti godi il calduccio» [...].
«Katerìna Ivànovna, possibile che io debba fare una cosa simile?», chiede
stupita quando la matrigna sembra suggerirle il mestiere più antico del mondo.
«"Perché", risponde Katerìna Ivànovna tutta ironica, "che c'è da
custodire? Bel tesoro davvero!"» [6]. Alle sei Sònja indossa la
mantellina, esce di casa in silenzio e torna verso le nove.
I personaggi di
Dostoevskij di norma, e in particolare i personaggi che noi chiameremmo
"positivi'", definiscono se stessi in rapporto a Cristo,
rappresentano Cristo in se stessi e nella loro vita, conformandosi all'immagine
di Dio presente nell'uomo.
Anche in questo caso
l'atmosfera è sacrale; si tratta del consumarsi della kénosi di Sònja. Anche
lei non ha considerato un tesoro da custodire gelosamente non solo la propria
integrità fisica, ma soprattutto la propria dignità e ha umiliato se stessa
fino a quella morte civile e sociale cui la condanna il "biglietto
giallo", segno di riconoscimento delle prostitute [8]. Evidenti risultano
i rimandi alla vicenda della Passione: i trenta rubli d'argento, prezzo della
"venduta", attualizzazione dei trenta sicli d'argento consegnati a
Giuda; il «non disse nemmeno una parola» che colloca la ragazza in quella
dimensione in cui ogni spiegazione sarebbe ormai inutile, ogni discorso vano,
situazione che ricalca quella di Gesù di fronte ai suoi accusatori: Jesus autem
tacebat; l'inginocchiarsi e il bacio dei piedi da parte di Katerìna Ivànovna
che, nuova Maddalena, riconosce la presenza del divino nel mistero della
sofferenza dell'innocente e dell'amore che si consegna senza riserve. Soltanto
il tremore incontrollabile dice che la passione continua. Il cadere in
ginocchio e il bacio trovano il loro compimento nell'abbraccio, anzi nel
rimanere abbracciate, tutte e due insieme; da subito, nel racconto del padre
ubriaco, è anticipato anche il frutto dell'amore che non trattiene nulla per
sé: la grande capacità di generare, e rigenerare, comunione.
Da allora Sònja ha dovuto
lasciare la famiglia; torna, a volte, verso l'imbrunire e aiuta come può la
matrigna, dimostrando un'infinita pietà per quei poveri disgraziati e anche per
il vizio del padre al quale dà le ultime trenta copeche: ancora una volta torna
il numero "sacro" e, di nuovo, il silenzio. Solo «in cielo» si ha
pietà degli uomini in questo modo, si piange per loro senza rivolgere alcun
rimprovero.
SÒNJA, IL PADRE
ALCOLIZZATO E IL GIUDIZIO FINALE
La storia è raccontata in
una bettola di infimo ordine dove si sono ritrovati due "uomini in
fuga" dal disincanto della realtà: Marmelàdov, «l'impiegato infingardo e
ubriacone, non incapace di slanci generosi e di pentimenti sinceri, ma sterili
e inutili sia gli uni che gli altri», che sembra trarre dalla sua confessione
una specie di riscatto «alla sua completa arrendevolezza al vizio» [9]; e
Raskòlnikov, lo studente squattrinato che pensa di poter dividere gli uomini in
dominatori e pidocchi concedendo ai primi il diritto di collocarsi «al di là
del bene e del male». Qui, tra avventori semiubriachi e bercianti, si ha la
prima grande epifania della divina misericordia, con anticipazione del
definitivo giudizio da parte di un padre degenere che tuttavia ha conservato in
sé l'Immagine – offuscata, abbrutita, stravolta – che sembra autorizzarlo a
parlare in Suo nome e addirittura con le Sue stesse parole.
Non mi confondo certo per
codesto crollar di capi, poiché tutti già sanno tutto, e ogni segreto diviene
palese; e non è con disprezzo, ma con rassegnazione, che considero ciò. Sia
pure! Sia pure! "Ecce homo!" (16).
Ogni segreto, dunque,
diviene palese, come si afferma in Lc 8,17 e a essere "rivelate" sono
anzitutto la colpa e la vergogna di una figlia tragicamente umiliata e di un
povero Cristo deriso che si presenta in tutta la fragilità della natura umana:
Ecce homo. Rovesciando il significato più proprio dell'espressione evangelica
(Gv 19,5) non viene più indicato il Figlio dell'uomo che prende su di sé il peccato
del mondo, ma l'uomo peccatore in cui tutti i presenti (e tutti i lettori)
possono identificarsi. Ora questo uomo è un "porco", con qualche
parentela, forse, con la "bestia" dell'Apocalisse; questo è l'uomo.
Sònja ormai è diventata
"una di quelle". Ma come andrà a finire in quel giorno, quando Lui
verrà a proclamare il suo giudizio, non quello degli uomini che l'hanno già
condannata al disprezzo? Marmelàdov, il padre ubriacone, non ha dubbi.
Verrà in quel giorno e
chiederà: «Dov'è la figlia che s'immolò per la matrigna malvagia e tisica, per
i teneri figli d'altri? Dov'è la figlia che ebbe pietà del padre suo terreno,
ubriacone impenitente, anziché aver orrore della sua bestialità?» E dirà:
«Vieni! Io ti ho già perdonato una volta... Ti ho perdonato una volta... E
anche ora ti vengono perdonati i tuoi molti peccati, perché molto hai amato...»
E perdonerà la mia Sònja, la perdonerà, so bene che la perdonerà... L'ho
sentito nel mio cuore poco fa, quand'ero da lei!... (26).
Peccatrice perdonata
perché molto ha amato, dunque, secondo il padre terreno e secondo le parole del
Vangelo, qui esplicitamente richiamate.
Inizia, in questo modo,
anche la rivelazione di un altro segreto, infinitamente più grande, quello
dell'agire di Dio, lontano dalla giustizia umana quanto il cielo dista dalla
terra e che ha come unico fondamento e criterio una misericordia senza limiti.
Per tutti e per tutto.
E tutti giudicherà e
perdonerà, i buoni e i cattivi, i saggi e i mansueti... E quando avrà finito
con tutti, allora apostroferà anche noi: «Uscite,» dirà, «voi pure! Uscite,
ubriaconi, uscite voi, deboli, uscite voi, viziosi!» E noi usciremo tutti,
senza vergognarci, e staremo dinanzi a lui. Ed egli ci apostroferà: «Porci
siete! Con l'aspetto degli animali e con il loro stampo; però venite anche
voi!» E obietteranno i saggi, obietteranno le persone ricche di buon senso:
«Signore! Perché accogli costoro?» Ed egli risponderà: «Perché li accolgo, o
saggi, perché li accolgo, o voi ricchi di buon senso? Perché non uno di loro se
ne è mai creduto degno...» E ci tenderà le sue mani, e noi vi accosteremo le
labbra, e piangeremo... e capiremo tutto! Allora capiremo tutto! Tutti
capiranno... anche Katerìna Ivànovna... anche lei capirà... Signore, venga il
regno tuo! (26).
E allora perché tanto
accanimento nel giudicare?
Effettivamente il discorso
di Marmelàdov è anche l'occasione della rivelazione dei due precetti evangelici
che stanno alla base della visione dell'uomo di Dostoevskij e della sua ultima
e più grande produzione letteraria: il comandamento di amare Dio con tutto il
cuore, con tutta l'anima e con tutte le forze e il prossimo come se stessi [10]
e quello, altrettanto importante, anche per la costruzione romanzesca, di non
giudicare [11].
Ad ascoltare le parole del
predicatore ubriaco stanno avventori non del tutto sobri, che rappresentano al
meglio quanti cedono facilmente alla tentazione del giudizio. Sull'altro
versante, quello di chi ormai è passata "oltre" questa tentazione, si
colloca invece Sònja, che posa sul vizio del padre uno sguardo che non è di
questo mondo, ma appartiene al "cielo".
In realtà la ragazza ha
trascinato anche il disgraziato genitore in quel territorio senza confini della
pietà, dove non è più possibile giudicare se non se stessi e il proprio
peccato. Anche nei confronti della seconda moglie, Katerìna Ivànovna,
direttamente responsabile della condizione di Sònja, Marmelàdov ha solo parole
di comprensione e mostra perfino tenerezza, una grottesca tenerezza da ubriaco
tanto vicina al ridicolo, ma che tuttavia ribadisce, praticandolo, il precetto
che vieta il giudizio. «È quindi a Marmelàdov che Dostoevskij affida la prima
rappresentazione visionaria di una specie di al di là del bene e del male»
[12], con parole che, riprendendo il pensiero espresso da Paolo nella prima
lettera ai cristiani di Corinto [13], mettono fuori gioco la sapienza di questo
mondo, quella dei saggi e delle persone di buon senso.
A conferma dell'arringa
pronunciata in un'atmosfera di "rovesciamento carnevalesco" da un
uomo consapevole della sua estrema indegnità, e che proprio in essa trova la
forza necessaria per chiedere l'aiuto di Dio, non stanno però soltanto
l'esperienza personale di Dostoevskij, che ha riscoperto il "pensiero di
Cristo" proprio tra i "porci" condannati ai lavori forzati [14],
e l'eco del testo evangelico, ma anche il recupero della tradizione dei Padri,
che rendono spesso luminose e illuminanti le verità implicite nella Scrittura.
Il riferimento, in particolare, è a Isacco il Siro - i cui Discorsi ascetici
erano presenti nella biblioteca di Dostoevskij [15] - che si appoggia tra
l'altro, nel suo Discorso 90, alle stesse citazioni evangeliche con l'aggiunta
della parabola del figliol prodigo [16].
Sarà proprio Raskòlnikov,
lo studente affetto da enormi pensieri e da una altrettanto grande povertà, a
riportare a casa moribondo quel disgraziato di Marmelàdov che, ubriaco, è
finito sotto le ruote di una carrozza.
Come se fosse suo padre
quel povero Cristo deriso diventato ora un povero Cristo piagato, con tutto il
petto schiacciato.
Sulla soglia di casa
appare all'improvviso Sònja, vestita con un abitino sgargiante, come è tipico
delle donne di strada, sconveniente in quel luogo e in quel momento. Quando il
padre si accorge di lei e la vede avvilita, abbattuta, grida: «Sònja! Figlia
mia! Perdonami!» e volendo porgerle la mano perde l'equilibrio cadendo dal
divano. «Si precipitarono a sollevarlo, lo riadagiarono, ma ormai era alla
fine. Sònja gettò un debole grido, accorse, l'abbracciò e rimase immobile in
quella stretta. Le morì fra le braccia» (208).
Anche in questa occasione
Sònja mostra tratti tipici della figura di Cristo e, non a caso, del Cristo
risorto, cui rimandano l'improvvisa apparizione in quella situazione di morte e
disperazione, il fermarsi sulla soglia e, infine, il tardivo riconoscimento con
la richiesta di perdono [17]. Intanto però, la tenera immagine della ragazzina
acquista anche – in quella casa che era stata definita da Marmelàdov «una
Sodoma, la più orribile», quasi ad anticipare la scelta della figlia – dei
tratti materni evocando, sullo sfondo, la figura della "pietà": tra
le sue braccia muore quel padre diventato ormai figlio di sua figlia.
INCONTRI E DIALOGHI. DELLA
VITA, DEGLI ALTRI E DELL'ALTRO
Il romanzo
"polifonico" di Dostoevskij [18], con la presenza di voci e coscienze
indipendenti, acquista alla fine l'aspetto di un grande dialogo tra
personaggi-idee [19]. Il dialogo tra idee, quando vuole essere incisivo e
decisivo, sfocia in azioni, gesti che mettono a confronto due libertà, con la
possibilità che la strada scelta per l'affermazione dell'io passi attraverso la
negazione-soppressione dell'altro [20]. È la via scelta da Raskòlnikov, che
vorrebbe attuare un omicidio "filosofico", un crimine "razionale"
per il bene dell'umanità, facendo di quel gesto il punto di partenza per
instaurare un nuovo ordine del mondo. In realtà, anche da questo punto di
vista, egli è un uomo scisso, portato istintivamente, nel suo rapporto con
l'altro, a prendersi cura di chi ha bisogno del suo aiuto per poi negare
razionalmente l'utilità di questo gesto [21]. Ed è proprio quell'istintivo
"prendersi cura" dell'altro che lo induce a soccorrere il povero
Marmelàdov e ai successivi incontri con Sònja.
Ora è lei che deve occuparsi
di quei tre bambini sfortunati; ma se anche lei si ammalasse? Finirebbero tutti
su una strada
«E Pòleéka, certamente,
farà la stessa fine,» diss'egli tutto a un tratto.
«No! No! Non può essere,
no!» e Sònja lanciò un grido disperato, come se l'avessero pugnalata. «Dio, Dio
non permetterà un orrore simile! ...» «Ne permette tanti altri.»
«No, no! Dio la
proteggerà, Dio! ...» ripeteva lei, fuori di sé.
«Ma forse Dio non esiste
affatto,» ribatté Raskòlnikov con una specie di gioia maligna, dopo di che si
mise a ridere e la guardò.
Il viso di Sònja si alterò
spaventosamente, percorso da un tremito convulso. Gli gettò uno sguardo di
indicibile rimprovero, voleva dire qualcosa ma non poté, e all'improvviso
scoppiò in amari singhiozzi, coprendosi il viso con le mani (360).
Allora Raskòlnikov si
china a terra baciando il piede di Sònja, che arretra vacillando, e racconta
che poco prima ha detto a un tale che egli non valeva il suo dito mignolo.
«Ma se io... sono una
disonorata, una grande, grandissima peccatrice!» [...] «Non è per il tuo
disonore e per il tuo peccato che gli ho detto questo di te, ma per la tua
grande sofferenza. Che tu poi sia una grande peccatrice è vero [...]
soprattutto perché hai ucciso e venduto te stessa inutilmente» (361).
È in questo gesto della
prostrazione che ha inizio il rovesciamento, la "conversione",
l'inversione del cammino dell'assassino che si è prosternato «davanti a tutta
la sofferenza umana». L'umiltà della disonorata, grande peccatrice – più si è
vicini a Dio e più forte diventa il senso del peccato –, che si consegna senza
condizioni al nuovo rapporto, ha avuto ragione della volontà di affermazione
che giunge a negare l'altro. Inizia da qui il lungo cammino verso il
riconoscimento della colpa.
Il racconto, d'altra parte,
aveva già iscritto nella vicenda stessa dell'omicidio la negazione di ogni sua
pretesa razionalità con l'assassinio di Lizavèta, l'innocente, portatrice di
quella Immagine che è al fondo di ogni uomo ed espressione quindi anche del
vero volto della sorella, al di là degli occhi «sfavillanti di malvagità» che
ne rappresentavano la maschera di superficie.
Ma intanto Raskòlnikov
continua a rimanere perplesso di fronte al mistero di quella vita in cui in
mezzo a tanta bassezza permangono, custoditi in un cuore puro, sentimenti e
ideali così alti e sacri [22]. Meglio sarebbe farla finita, buttarsi nel
canale... «E che ne sarebbe di loro?», domanda Sònja con un filo di voce, per
nulla sorpresa da quella proposta. Ci aveva, dunque, pensato; e non una volta sola.
Appare chiaro, allora,
fino a quale punto l'avesse straziata quella condizione disonorante e quanto,
insieme, le fossero cari, le "appartenessero" quei tre orfanelli e la
loro madre tisica e semifolle. Ma non poteva certo durare a lungo in quella
situazione senza impazzire, anzi forse era già impazzita.
L'atteggiamento di Sònja
nei confronti dell'altro è quello del "prendersi cura", senza
giudicare, ma anche lei è sottoposta a una permanente tensione generata
dall'impossibilità di una risposta adeguata e dalla sua urgente necessità,
tensione che richiede la disponibilità ad "amare a vuoto" (a uccidere
e vendere se stessa «inutilmente», secondo il linguaggio di Raskòlnikov)
riconoscendo così l'altro come un bene, al di là di ogni efficacia o efficienza,
in quanto in esso è riconoscibile l'immagine di Colui che ha dato il
comandamento di amare il prossimo come se stessi. Dopo la comparsa di Cristo,
ideale incarnato dell'uomo, è ormai chiaro che la piena realizzazione della
personalità umana consiste nella totale donazione di se stessi a tutti e a
ciascuno, senza riserve, secondo la paradossale regola del conservare-perdere
la vita e del donarla-salvarla. Tutto ciò, naturalmente, è comprensibile solo
all'interno di una visione di fede
Cominciò a osservare Sònja
più attentamente.
«Allora, Sònja, tu preghi
molto Dio?» le domandò.
Sònja taceva; lui stava in
piedi accanto a lei e aspettava la risposta.
«Che cosa sarei mai senza
Dio?» mormorò lei in tono energico e concitato, guardandolo con occhi
sfavillanti e serrandogli forte la mano nella sua. «Proprio come pensavo!» gli
passò per la mente.
«E Dio cosa fa per te?» le
domandò, continuando il suo interrogatorio.
Sònja tacque a lungo, come
se non potesse rispondere. Il suo debole petto era tutto scosso dall'emozione.
«Tacete! Non fatemi
domande! Voi non ne siete degno!...» esclamò a un tratto, guardandolo
severamente, tutta indignata.
«È proprio così! È proprio
così!» ripeteva lui insistentemente dentro di sé. «Egli fa tutto!» sussurrò lei
concitatamente, abbassando di nuovo gli occhi. «Eccola, la via d'uscita! Ed
ecco la spiegazione!» concluse Raskòlnikov in cuor suo, osservandola con avida
curiosità (363).
Che cosa sarei senza Dio?
Dio fa tutto per me. Ecco ciò che le permette di resistere: questa profonda
fede in Dio, che si traduce in un totale abbandono e in un forte senso della
sua presenza, unica certezza in una situazione che sembra non avere futuro.
Una fede illimitata cui si
accompagna, ormai, una scarsa "pratica" religiosa. È "una di
quelle" e ai frequentatori – e frequentatrici – abituali della divina
liturgia sembrerebbe quasi una profanazione trovarsela accanto [23].
Ci andrà, in chiesa, per
il funerale di suo padre, come ci è andata, qualche giorno prima, perché ha
fatto dire una messa funebre per Lizavèta, la donna giusta che si recava da lei
a leggere il Vangelo, uccisa a colpi di scure e ora al cospetto di Dio.
Risulta evidente, anche da
questo incontro, come tutto rientri nel piano più vasto di Dio, che non lascia
le sue creature nella loro solitudine. «A Sònja è mandata Lizavèta, che le
porta il Vangelo e la croce, a Raskòlnikov è mandato Marmelàdov e, attraverso
di lui, è mandata Sònja, che a sua volta gli trasmette il messaggio di fede, di
umiltà e di mitezza della donna che egli ha accidentalmente ucciso» [24].
LA PAROLA ETERNA DELLA
RISURREZIONE
All'improvviso, quasi di
mal animo, Raskòlnikov le ordina di leggere per lui il brano del Vangelo di
Giovanni che narra la risurrezione di Lazzaro.
In Dostoevskij Vangelo e
romanzo sono «fusi e colati in uno stesso crogiolo, dove viene forgiato un
nuovo testo, originale, vivo, ancora infuocato. Il Vangelo non viene
semplicemente citato, ma entra a far parte funzionalmente del romanzo, i
personaggi [...] divengono parte integrante della vicenda evangelica, le azioni
narrate nel romanzo [...] diventano quadri del Nuovo Testamento» [25]. Inoltre,
i brani biblici inseriti come testi nei romanzi sono tutti incentrati sulla
possibilità della rinascita, rivelano ai protagonisti la via per passare da una
situazione di morte alla pienezza della gioia e della vita. Un'evidenza e
un'importanza tutta particolare ha, in questo senso, proprio il brano della risurrezione
di Lazzaro, vero centro ideologico di Delitto e castigo.
Ancora una volta il luogo
dove risuona la divina Parola, dice tutta la povertà della condizione umana:
dopo la bettola, dove si rifugiava il padre alcolizzato, la stanza dove la
figlia riceve i suoi clienti. In una camera grande e bassa, con la forma di un
quadrilatero irregolare, il volume del Vangelo, vecchio e comprato d'occasione,
sta su un cassettone di legno grezzo che sembra perduto nel vuoto, appoggiato
alla parete opposta dove si trova il letto, quel letto. L'ha portato Lizavèta,
vittima innocente e imprevista, che si recava da Sònja per leggere con lei la
parola di Cristo, nella certezza della Sua presenza.
Un accenno al miracolo di
Lazzaro l'ha già fatto il giudice istruttore Porfirij Petrovič [26], in uno di
quei colloqui che risultano decisamente prolettici rispetto allo svolgimento
della vicenda, perché l'eternità crea necessariamente dei varchi nella
cronologia: Raskòlnikov, per quanto ancora lontano dalla fede e da un vero pentimento,
appare già assunto nel mistero della risurrezione di Cristo, a cui rimanda
quella di Lazzaro [27]: «La scena di questa lettura non è solo premonitrice, ma
costituisce il compimento hic et nunc di ciò di cui è premonizione» [28].
Come accade nel Vangelo di
Giovanni, fede e misericordia, umile adesione e orgoglioso rifiuto si oppongono
violentemente e i due protagonisti, ossimori viventi (il pensatore criminale e
la prostituta giusta), attraverso la lettura del libro sacro cercano di
penetrare l'uno nel segreto dell'altro. Lei invoca de profundis dopo che lui ha
insistito sul carattere catastrofico della sua situazione, umanamente senza vie
d'uscita ma, man mano che progredisce nella lettura, il tormento e la coscienza
della propria impotenza sono sopraffatti da una nuova forza morale che conduce
addirittura all'esultanza. Diventa, quella lettura, rivelazione di ciò che le
dà la forza di vivere e promessa all'ascoltatore di una possibilità di
risurrezione offerta in una comunione che durerà per il resto della vita. Lui
cerca di decifrare quell'enigma di innocenza al cuore della sozzura, intuendo
che ella ha trovato qualcosa che sfugge al dualismo, alla scissione della sua
vita. Follia o fede? Che attenda un miracolo? In realtà il miracolo c'è già
stato; è lei stessa, miracolosamente intatta, preservata.
Ma il racconto del
miracolo evangelico è performativo, ne compie sempre di nuovi. Raskòlnikov si
inginocchia davanti a Sònja: quell'altra vita è già iniziata anche se lui deve
ancora scegliere il proprio destino. La pagina di Giovanni fonda così il legame
definitivo tra «l'assassino e la prostituta stranamente riuniti nella lettura
del libro eterno» (368). Certo il progetto di Dio è più vasto e richiede un
lungo e spesso doloroso processo di partecipazione e di disponibilità da parte
dell'uomo; ma che importa se c'è la certezza che «Dio fa tutto per me»? E a
volte sono proprio le vittime a collaborare alla rinascita dei loro carnefici:
Raskòlnikov ascolta le parole della risurrezione attraverso quel vecchio libro
del Nuovo Testamento donato da Lizavèta all'amica Sònja.
Dostoevskij crede alla
contemporaneità della storia evangelica che "prosegue" in ogni tempo,
ma non impone mai il proprio punto di vista. Questa pagina, però, è talmente
decisiva, che i segnali inviati dall'autore al lettore si moltiplicano. Cambia,
ad esempio, la prospettiva. Normalmente assistiamo allo svolgersi della vicenda
dal punto di vista di Raskòlnikov e di Svidrigàjlov, ma in questo caso la scena
è osservata, e vissuta, nella prospettiva di Sònja che rivela se stessa
attraverso il tono della voce, le pause, il modo in cui legge quel brano [29].
Quella risurrezione è anzitutto miracolo possibile, "qui e ora", per
lei, essere di luce e strumento della grazia divina, e insieme portatrice di una
colpa che la umilia.
Si moltiplicano, inoltre,
le sottolineature anche grafiche di alcune parole, sia nella descrizione
dell'atteggiamento e dello stato d'animo dei due protagonisti, sia dello stesso
brano evangelico: il segreto di Sònja, che sta per rivelarsi; il leggere
proprio a lui e proprio in quel momento, che sottolinea l'accadere, la perenne
contemporaneità della parola di Cristo; Io sono la risurrezione e la vita con
il rimando alla fede in Cristo e alla possibilità, attraverso di essa, di risorgere:
per tutti e in ogni momento; i quattro giorni, e il conseguente puzzo del
cadavere, che escludono ogni possibilità di pura apparenza; e il morto uscì
fuori: il miracolo è compiuto e potrà, può di nuovo accadere; e la conclusione:
«Allora molti dei Giudei che erano venuti da Maria e che avevano visto ciò che
Gesù aveva fatto, credettero in lui» (368). Anche lo scettico venuto da questa
nuova Maria crederà? Anche per l'assassino che uccidendo la vecchia usuraia ha
ucciso se stesso ci sarà il miracolo della risurrezione?
Sònja inizia a fatica, ma
alla terza parola la sua voce si incrina come se in quello sforzo trasparisse
la paura di svelare il suo segreto più vero, insieme al desiderio di leggere
proprio per lui, e proprio in quel momento, qualunque cosa dovesse accadere in
seguito, la storia del miracolo compiuto da Gesù per l'amico. «La prima
confessione pronunciata in questa stanza non è quella dell'assassino, ma è la
rivelazione di se stessa che la ragazza fa attraverso il tono di voce, le
pause, il modo in cui legge il brano di Giovanni. Il "segreto" di
Sònja [...] è stato scoperto nel momento in cui il personaggio ha toccato il
fondo, vivendo una sofferenza che ha spogliato la sua vita di tutto il
superfluo» [30]. Questo le è rimasto: il Vangelo come parola detta
personalmente a lei, in questo momento, qualunque cosa possa accadere in
seguito; il Vangelo, quindi, veramente letto e accolto come parola del Signore.
Intanto si è generata una
inscindibile solidarietà tra i «maledetti»; percorreranno la stessa strada, non
però quella della libertà e del potere su tutto il «formicaio», come pensa
ancora quell'infelice («tremendamente, immensamente» [368], «terribilmente»
[370] infelice).
DALLA PAROLA AL GESTO
Raskòl'nikov ha dunque
ucciso l'usuraia e l'innocente sorella, spinto da un'aberrante teoria che
divide gli uomini in due categorie: i "protagonisti della storia", i
Napoleone, e i "pidocchi" che costituiscono il semplice
"materiale della storia". Per questi ultimi vale la morale ordinaria;
gli altri, invece, possono andare oltre, possono anche... uccidere. Per questo
si è recato dalla vecchia e l'ha uccisa: per procurarsi il denaro che gli
occorreva, certo, ma soprattutto per chiarire a se stesso se apparteneva alla
razza dei Napoleone o dei pidocchi. Ora non riesce a sopportare il rimorso e
confessa a Sònja il proprio delitto.
Come impazzita, Sònja
balzò in piedi e andò, torcendosi le mani, nel mezzo della stanza; ma subito
tornò indietro, e di nuovo sedette accanto a lui, quasi sfiorandolo con la spalla.
A un tratto, come trafitta, sussultò, lanciò un grido, e senza sapere lei
stessa quel che faceva gli si gettò davanti in ginocchio.
«Che cosa avete fatto, che
cosa avete fatto di voi stesso!» esclamò disperata e, rialzatasi di scatto, gli
si gettò al collo, lo abbracciò e lo strinse forte forte tra le sue braccia
(462).
Ora è lei a prostrarsi
«davanti a tutta la sofferenza del mondo» – perché anche lui ha ucciso se
stesso [31], inutilmente – e, come il Padre della parabola, abbraccia il figlio
che in un paese straniero ha dissipato tutto quanto aveva, soprattutto la
propria dignità di figlio. «Come trafitta»: in comunione con il Trafitto, dalle
braccia spalancate per sempre.
L'amore umile, attento,
corresponsabile di Sònja non vede in Raskòlnikov l'assassino, ma soltanto un
uomo che soffre, un povero uomo che deve essere aiutato ad accettare la
sofferenza per potersi riscattare. «Come l'acqua rivela il volto al volto, così
il cuore rivela l'uomo all'uomo» (Pr 29,19) e solo attraverso questa esperienza
dell'incontro con "un cuore" diventa possibile superare la scissione
tra i due mondi e scorgere l'invisibile presenza del divino nell'umano. Intanto
appaiono le lacrime; prima in lei, a ribadire la sua immensa capacità di
com-patire, poi due lacrime spuntano anche sugli occhi dell'omicida che sta per
iniziare la lunga strada del pentimento e dell'espiazione. «Insieme, insieme!»
è la parola ripetuta, ribadita come fondamento del nuovo cammino che deve
essere anzitutto superamento di ogni separazione.
Due gesti sono suggeriti
da Sònja per uscire immediatamente da quella situazione di disperante angoscia.
«Alzati!» Lo afferrò per
la spalla; egli si raddrizzò, fissandola quasi con meraviglia. «Va' subito
fuori, in questo stesso istante, fermati al crocicchio, prosternati, bacia
prima la terra che hai insozzato, e poi prosternati davanti a tutto il mondo, in
tutte e quattro le direzioni, e di' a tutti, a voce alta: "Ho
ucciso!" Allora Dio ti restituirà la vita. Ci andrai? Ci andrai?» gli
chiedeva, tutta tremante, come in preda a una crisi isterica, afferrandogli le
mani, stringendogliele forte tra le sue e fissandolo con uno sguardo di fuoco
(472) [32].
Per ora, però, Raskòlnikov
non è ancora in grado di chiamare "delitto" il suo gesto, come non è
in grado di prendere pienamente coscienza del solco che si è scavato tra lui e
i quattro angoli del mondo, in quale disumana solitudine l'abbia sprofondato
l'assassinio, e non ha ancora deciso, quindi, di consegnarsi.
L'impulso ad agire è
scatenato, ancora una volta, dall'improvviso ricordo delle parole di Sònja che
generano «tremore» e «angoscia senza scampo», ma fanno sentire anche vicina una
possibile liberazione come testimonia il "segno" delle lacrime.
«S'inginocchiò in mezzo alla piazza, si chinò fino a terra e la baciò, sporca
com'era, con un senso di voluttà e di gioia» (593), senza però riuscire, a
causa delle esclamazioni e dei commenti della folla, a confessare di avere
ucciso. Poi, voltandosi, scorge Sònja che lo aveva accompagnato in quel suo
triste cammino, come Maria sulla via del Calvario. In quel momento capisce che
sarebbe stata con lui per sempre, che lo avrebbe seguito anche
"laggiù", che i loro destini si erano definitivamente intrecciati.
Il bacio della terra ha,
evidentemente, un forte valore simbolico: tornare alla terra significa tornare
a se stessi e nessuno può realizzare qualcosa se non è anzitutto se stesso.
Quel bacio significa riconoscimento della comune origine, sconfessione, da
parte di Raskòlnikov, del suo volersi separato, diverso e superiore, primo
gesto, quindi, di riconciliazione. L'evidente rimando alle origini del contatto
con la terra, ribadisce poi la coscienza di essere polvere che acquista senso e
consistenza soltanto se docilmente consegnata nelle mani di Dio e aperta al
soffio del suo Spirito. Infine la duplice valenza del termine usato da
Dostoevskij ci mette di fronte alla proclamazione, da parte del
"pubblico", del peccato che Raskòlnikov non riesce per ora a
confessare [33], anche se la confessione appare implicita in quel bacio dato
alla terra che egli ha insozzato con il sangue delle due vittime: il bacio, in
questo senso, assume un forte valore "penitenziale".
Un altro gesto, che dice
tutto il desiderio di condivisione presente in Sònja, e tutto il significato
religioso di questo desiderio, scardina dalle fondamenta l'ideologia di
Raskòlnikov, rendendo vano quel fiume di parole con cui aveva tentato di
giustificarsi.
«Hai una croce addosso?»
chiese Sònja all'improvviso, come se le fosse venuto in mente proprio in
quell'istante.
Lì per lì, lui non capì la
domanda.
«Non ce l'hai, vero che
non ce l'hai? Ecco, prendi questa: è di cipresso. Io ne ho un'altra, di rame,
che era di Lizavèta. Io e Lizavèta ci siamo scambiate le croci: lei mi ha dato
la sua, e io le ho dato la mia piccola immagine. Ora io porterò quella di
Lizavèta; questa tienila tu» [...].
«Non ora, Sònja. Più tardi...
sarà meglio più tardi,» aggiunse per tranquillizzarla.
«Sì, sarà meglio, sarà
meglio,» esclamò lei. «Quando andrai a soffrire, allora te la metterai. Verrai
da me e io te la metterò al collo; e pregheremo insieme, e poi andremo là»
(474-475).
Lo scambio delle croci
dice in maniera evidente la disponibilità di Sònja a «portare i pesi gli uni
degli altri», ma dice anche la possibilità di chiamare croce il proprio dolore
unendolo al dolore di Cristo e dandogli così un senso e un valore definitivo
[34]. A questo Raskòlnikov non è ancora pronto; sarà di nuovo Sònja a condurlo
al passo decisivo, che dovrà realizzarsi comunque attraverso l'accettazione
della sofferenza, perché senza di essa è impossibile, per Dostoevskij, la
ricostruzione di una vita e la conquista della felicità. Si tratta di quella
che lui stesso definisce la "concezione ortodossa", annotata proprio
in preparazione della stesura di Delitto e castigo.
Non si ha la felicità in
una situazione di comodità. È attraverso la sofferenza che essa si raggiunge.
Questa è la legge del nostro pianeta, ma questa conoscenza diretta (soznanie),
percepita attraverso il processo vitale, è una gioia così immensa che si può
pagare con anni di sofferenza. L'uomo non nasce per la felicità. Egli conquista
la sua felicità e sempre attraverso la sofferenza. Qui non c'è nessuna
ingiustizia, perché la conoscenza, direttamente percepita dal corpo e dallo
spirito ovvero da tutto il processo vitale, si acquista con l'esperienza del
pro et contra, che è necessario sperimentare su di sé [35].
Il gesto di Sònja, segno
della sua fede che si fa disponibilità alla totale com-passione, riuscirà a
redimere l'angoscia dell'assassino attraverso l'accettazione della croce.
Possiamo costatare, in questo modo, la sconfitta della morale del superuomo,
una morale di libertà "assoluta", priva di ogni vincolo, che si
rivela in realtà soltanto insopportabile scissione e negazione della volontà e
del libero arbitrio [36].
EPILOGO CON ICONA
Dopo che Dio ha fatto
effettivamente "tutto" per i tre poveri orfani, Sònja può seguire
colui al quale si è unita, con il patto della croce, anche ai lavori forzati,
dove Raskòlnikov inizialmente rimane appartato, scontroso, spesso anche con
lei, mentre gli altri forzati imparano subito a volerle bene, a fidarsi di lei:
è lei che scrive le loro lettere ai parenti e questi, quando arrivano in città,
consegnano a lei oggetti e denaro [37]. È riconosciuta immediatamente come
consolatrice e come aiuto, prima ancora che faccia qualcosa per loro, e quando
lei "appare" tutti la salutano togliendosi il berretto e la chiamano
«madre nostra dolce e dolorosa», accolgono il suo sorriso come una benedizione
e vanno da lei «perfino per farsi curare». Uno soltanto fa eccezione:
Raskòlnikov, il separato, colui che non crede e quindi non vede [38]. Lui vive
ancora "lontano", rimane spesso in silenzio durante le sue visite,
prende quasi con stizza la mano che lei gli tende, lasciandola andare alla fine
profondamente addolorata. In realtà si vergogna di lei; nel suo cuore non c'è
ancora un vero pentimento, ma soltanto orgoglio ferito dal
"fallimento", dall'essersi comportato tanto stupidamente. Poi, quando
Sònja si ammala e interrompe le sue visite per qualche giorno, si accorge di
averla sempre aspettata, è assalito dall'inquietudine, chiede notizie, finché
un suo biglietto lo tranquillizza assicurandogli che presto verrà a incontrarlo
sul posto di lavoro.
La malattia,
l'inquietudine e l'angoscia, che esprimono nel fondo del suo essere
l'aspirazione a ricongiungersi a Dio, gli aprono nuovamente gli occhi
permettendogli di entrare in uno spazio "altro", in un
"laggiù" che è spazio della libertà, dove il tempo sembra essersi
fermato ai secoli di Abramo [39. In questa situazione di angosciosa
contemplazione, "appare" Sònja, quasi impercettibilmente.
Si era avvicinata pian
piano e gli si era seduta accanto. Era ancora molto presto, il freddo del
mattino non s'era ancora attenuato. Lei indossava il suo povero vecchio
mantello e quel tale scialletto verde. Il suo viso mostrava ancora i segni
della malattia: era più magro, più pallido, più affilato. Gli sorrise
dolcemente, piena di gioia, ma, come al solito, gli tese la mano quasi con
timore (619).
Nell'epilogo dei grandi
romanzi di Dostoevskij si trova sempre un riferimento al Vangelo e, a parte
L'idiota – dove per altro vi è un esplicito accenno al Cristo morto di Holbein
– la scena finale rimanda a delle icone ben individuabili [40]. Questo vale
anche per Delitto e castigo e per la figura di Sònja, che non solo incarna la
salvezza per Raskòlnikov, ma indica pure la strada per unirsi a Dio.
In questa sua ultima
"apparizione" Sònja indossa un burnus, l'indumento più adatto per
indicare il manto che tradizionalmente indossa Maria, e uno scialle verde,
colore sempre presente nelle icone, simbolo della vita terrena, in rapporto
diretto, quindi, con l'intercedere di Maria per ogni creatura della terra. I
gesti di Sònja esprimono affabilità e timidezza insieme, e rendono «in modo
incredibilmente preciso l'impressione, assai difficile da descrivere, che
suscitano le icone in cui è raffigurato questo gesto: una carezza, un gesto di
supplica e di affabilità» [41]. In questa immagine il Cristo bambino è
rappresentato dallo stesso Raskòlnikov, come nella lettera in cui, all'inizio
del romanzo, la madre ricorda quando, da piccolo, balbettava le preghiere sulle
sue ginocchia: a lui è nuovamente offerta, quindi, la possibilità di ricuperare
quel rapporto originario. Sònja gli tende la mano e questa volta le loro mani
sembrano non volersi sciogliere più, mentre lui, in silenzio, le rivolge una
rapida occhiata e poi abbassa lo sguardo.
Nell'icona della Madre di
Dio garante dei peccatori lo sguardo di Cristo è rivolto in avanti, verso il
basso, con le due figure che danno l'impressione di essere sedute una accanto
all'altra e «il Cristo Bambino tiene con entrambe le mani la mano destra della
Madre, così come si fa quando si conclude una negoziazione. Con questa stretta
di mano Egli sembra assicurare alla Madre che esaudirà sempre le sue preghiere
per i peccatori» [42]. Inoltre una nuova icona miracolosa della Madre di Dio
garante dei peccatori si era rivelata proprio al tempo in cui Dostoevskij stava
scrivendo Delitto e castigo, a ricordare, nel secolo del dubbio e dell'ateismo,
l'infinita misericordia di Dio.
Come si è detto, i
condannati da subito hanno riconosciuto in Sònja la loro protettrice; ora il
suo amore riconduce alla fede Raskòlnikov, il peccatore che aveva rotto la
comunione con Dio:
A un tratto [43] si sentì
come afferrato e gettato ai piedi di lei. Piangeva, e le abbracciava le
ginocchia. Dapprima Sònja si spaventò a morte, il viso le si fece d'un pallore
mortale. Balzò in piedi e lo guardò tremando; ma subito, in quello stesso istante,
capì tutto. Nei suoi occhi brillò una felicità infinita; capì, e per lei non ci
fu più alcun dubbio: egli l'amava, l'amava immensamente: alla fine, quel
momento tanto atteso era arrivato...
[...] Li aveva risuscitati
l'amore: il cuore dell'uno, ormai, racchiudeva un'inesauribile sorgente di vita
per il cuore dell'altro (619-620).
Di nuovo, dunque, la
"prostrazione" che riconosce la presenza del divino in quella
fanciulla capace di amare fino alla fine e, finalmente, il dono di lacrime vere
– «espressione di un'altra giustizia, di un'altra verità» [44] – il sospirato
atteso riconoscimento della colpa e la grazia del pentimento [45]. Da qui
l'umiltà di chi conosce il patire e la felicità che ne deriva secondo la
visione ortodossa e la testimonianza, ancora una volta, di Isacco il Siro [46].
L'icona rappresenta una soglia, un confine che deve essere attraversato, la
frontiera tra il visibile e l'invisibile, tra il temporale e l'eterno; è legata
a qualcosa che viene da "oltre", per questo ha la capacità di dischiudere
il cielo all'uomo. È quanto accade anche nel romanzo: Raskòlnikov con Sònja è
ormai entrato in un'altra dimensione in cui il tempo puramente cronologico non
esiste più, dove mille anni sono come un giorno: «Sette anni, soltanto sette
anni! All'inizio della loro felicità, in quei primi momenti, tutt'e due erano
pronti a considerare quei sette anni come sette giorni...» (621) [47].
Sònja, dunque, la
prostituta, è presentata come immagine, icona della Madre di Dio garante dei
peccatori; a lei, peccatrice, è stata data la grazia di intercedere per i
peccatori, diventando madre nell'affetto e nello Spirito. E questo è stato
possibile perché, anche in quella situazione di peccato, dal suo cuore Dio non
era assente. Scopo dell'icona è «presentare al cristiano il termine e il fine
della vita dell'intera umanità e di tutta la creazione, che è la
trasfigurazione di tutta la vita e del cosmo verso l'immagine divina» [48], e
questo è anche il nucleo fondamentale dell'«altra storia», quella a cui
Dostoevskij accenna solamente, anche perché quel racconto apparterrebbe, forse,
più all'ambito dell'agiografia che a quello del romanzo [49].
Cambiano, dopo questo
incontro, i rapporti di Raskòlnikov con i compagni di prigionia, cambiano i
suoi pensieri; sente, oscuramente, nella propria coscienza, che sta accadendo
qualcosa di assolutamente nuovo.
Sotto il guanciale c'era
il Vangelo. Lo prese macchinalmente. Quel libro apparteneva a lei, era lo
stesso dal quale lei gli aveva letto i versetti sulla risurrezione di Lazzaro.
Nei primi tempi della sua deportazione, egli pensava che Sònja lo avrebbe
tormentato con la religione, che si sarebbe messa a parlargli del Vangelo e a
imporgli di leggere dei libri. Invece, con sua grandissima sorpresa, lei non
aveva affrontato nemmeno una volta quest'argomento, e nemmeno gli aveva mai
offerto il Vangelo. Era stato lui a chiederglielo, poco prima della sua
malattia, e lei gli aveva portato il libro senza una sola parola. Fino a quel
momento, del resto, lui non l'aveva nemmeno aperto. Nemmeno adesso l'aprì; ma
per la mente gli passò, rapido, questo pensiero: «Posso non avere le sue stesse
convinzioni, ormai? O, almeno, i suoi stessi sentimenti, le sue stesse
aspirazioni?...» (620-621).
Sono diventati una cosa
sola e quella fusione delle loro vite li rende pronti ad affrontare quei sette
anni come fossero sette giorni. Così la vita della prostituta ha raggiunto
quella dell'assassino. Quale vita? «Ma si può vivere così?», aveva esclamato un
giorno Raskòlnikov; così, facendosi carico di tutto e di tutti, prodigandosi,
spendendosi interamente senza pensare al proprio futuro, vivendo fino in fondo
"l'amore più grande", quello di chi dà la vita per gli amici.
«"Compassione insaziabile": l'altruismo che la disarma e le fa accettare
un destino qualsiasi senza giudicare, senza condannare; che le dà anche la
genialità del cuore, ond'ella vive, come se fosse sua, la sorte altrui, ma
senza pretenziosità, senza inframmettenze e vanità alcuna. La sua è pura,
fervida partecipazione» [50]. Soltanto con questa compassione insaziabile è
possibile ri-creare un luogo di vera accoglienza, quel "paradiso in
terra" sempre precario e sempre da ricostruire, che ha come base il
sentimento della comunione, e quindi della responsabilità, universale. «Sotto
il guanciale c'era il Vangelo». La mediazione della Parola Eterna è ancora una
volta sottolineata nella sua presenza non invadente, proposta silenziosa che
rispetta i tempi della libertà umana, parola di Colui che sa "stare alla
porta". In questo caso si tratta addirittura di mediazione indiretta,
generata dalla presenza materiale del Vangelo [51]', che non è neppure aperto,
semplicemente perché non è necessario: «Posso non avere le sue stesse
convinzioni, ormai? O, almeno, i suoi stessi sentimenti, le sue stesse aspirazioni?...».
Parola evangelica e sentimenti e aspirazioni di Sònja per Raskòlnikov tendono
ormai a identificarsi, per cui la presenza dell'una richiama istintivamente
quella degli altri.
POCHE, SEMPLICI
RIFLESSIONI
Questa è la vita di Sònja,
una vita immersa nell'amore e nella capacità di donarsi, che continua a trovare
il proprio senso nella fede anche quando deve "amare a vuoto", e
insieme segnata dal peccato. Siamo di fronte a una figura «che in nessun modo
può essere ricondotta alla retorica romantica della donna perduta o populistica
della vittima sociale o sentimentalistica dell'abnegazione eroica» [52]. Si
tratta di una figura semplicemente evangelica; appartiene ai racconti di quel
Libro Eterno dove i protagonisti sono i piccoli, gli umili e i peccatori, i
pubblicani e le prostitute appunto, e dove trionfa la vera umiltà che non si
lascia minimamente intaccare dall'avvilimento. Non è difficile scorgere in
essa, anche a una prima superficiale lettura, alcuni tratti fondamentali
dell'infanzia spirituale che, pur umiliata e offesa, non smarrisce il fiducioso
abbandono con cui si è consegnata a Dio e conserva un candore che contagia
l'interlocutore perfino nei momenti in cui l'angoscia rischia di degenerare in
disperazione [53]. Inoltre la disponibilità a farsi carico di tutti fa nascere
in lei quella «genialità del cuore» che intuisce, legge dentro l'animo di chi
soffre, offrendosi come il luogo in cui l'altro può esprimersi in tutta la sua
verità: per questo può dire quella parola, compiere quel gesto, insperato e
atteso insieme, che diventano principio di vita nuova.
Siamo di fronte a
un'esistenza umanamente inspiegabile ma accettata nella sicurezza che ciò che è
impossibile agli uomini è possibile a Dio, e nella certezza che in quella vita
Cristo è presente [54].
Un'esistenza "in
tensione", come in tensione è l'immagine di Dio proposta da Dostoevskij
(come in tensione è stato il suo rapporto con Dio) [55]. Povero, tenero agnello
che prende su di sé il peccato altrui, sa di essere a sua volta peccatrice e
non cerca nessuna "giustificazione", anche se ha ceduto al peccato
per amore di altri, credendolo un dovere [56]. «Una ragazza innocente e pura»,
l'ha definita qualcuno. «Per chi abbia letto il romanzo superficialmente,
l'affermazione risulta assolutamente ridicola – si tratta di una prostituta –,
ma se guardiamo più in profondità essa dice il vero, ed è una cosa
meravigliosa: per Sònja la carne è un'ultima difesa, la barriera che non
permette al peccato di raggiungere il suo spirito. E nello spirito essa è
assolutamente casta e pura» [57]. Ritroviamo, in questo caso, una delle
tensioni fondamentali della visione del mondo di Dostoevskij, quella tra etico
e religioso: donna "perduta" sul piano etico, Sònja è
"ritrovata" su quello religioso, quello dell'adozione divina.
La purezza starebbe,
secondo Guardini, nel soffrire quanto aborrisce; ma questi sono problemi che
giustamente deve porsi il lettore. Sònja che cosa direbbe? Nulla; il suo
atteggiamento fondamentale è quello del "silenzio": accetta. Accetta
la situazione disastrosa in cui l'ubriachezza del padre ha precipitato tutta la
famiglia; non cerca di difendersi ribellandosi, esprimendo un giudizio, ma
lascia ogni giudizio e ogni possibilità di "giustificare" a Dio,
continuando, pure in quella situazione, a credere che Dio fa tutto per lei, che
può pronunciare la parola della salvezza anche per lei, ora.
Nulla a che vedere,
quindi, con la "morale della situazione", perché Sònja non si pone
assolutamente il problema di "giustificare" la sua situazione, tutto
risulterebbe falso se volesse giustificarsi. «La filosofia morale d'Occidente
sembra rifiutarsi di fornire qui un concetto positivo nel timore – e non
ascoltare l'avvertimento sarebbe per noi fatale! – che si possa cancellare la
linea che divide il giusto dall'ingiusto, il bene dal male. Neppure il nostro
pensiero religioso occidentale sembra poter dare a questa esistenza un valore
positivo senza incontrare difficoltà. Ma se sapremo coglierne la profonda nota
originale, sentiremo chiaramente di trovarci in presenza di qualche cosa di
grande moralmente e anche dal punto di vista cristiano» [58].
Se si è allontanata dalla
Chiesa ufficiale – per via di quello che è, di quello scandalo vivente che
rappresenta – non ha assolutamente allentato i rapporti con la croce di Cristo
e con la comunità degli uomini. Questo è il mistero di Sònja, incomprensibile
per il "razionale" Raskòlnikov: come possono convivere tanta bassezza
insieme con le aspirazioni e gli ideali più alti, gli ideali evangelici?
Sònja non dà una risposta
a parole, semplicemente vive, nella situazione in cui si trova, dove c'è la
presenza del peccato, ma dove non è certamente assente quel Dio che ha
accettato di morire in croce per tutti i peccatori e tra peccatori. E come ha
detto suo padre, l'ubriacone, "rubando" le parole del Vangelo, molto
le è perdonato perché ha molto amato. La sua pace interiore sta nel non
giustificarsi, nel continuare a vivere convinta della propria colpa, in attesa
di una redenzione che le può essere solamente donata. «Applicare il metro della
ragione o della giustizia qui non conduce a niente. Ma Dio si manifesta a
questa creatura nella sua vivente realtà. Egli è Lui, ossia quel
"tutto". Ed ella sta nel Suo cospetto» [59]. Certo la tentazione
degli uomini "di chiesa" è quella di considerarla poco religiosa,
soprattutto poco "ortodossa", dato che legge il Vangelo, ma come
potrebbe fare «una giovane inglese che si trovasse nella sua stessa situazione»
senza passare attraverso «il cristallo della dottrina dei padri» e quindi con
il rischio sempre imminente di cadere nell'eresia. «Notiamo ancora un
dettaglio: questa ragazzina (la Marmelàdova) pare non recitare moleben, non
cerca il consiglio dei padri spirituali e monaci, non si accosta alle icone
miracolose e alle reliquie; ha partecipato solo al rito funebre per suo padre»
[60].
È facile, e continua a
essere molto facile, confondere religiosità e pratica religiosa, considerando
irreligioso chi non si accosta o non può accostarsi alla pratica. Per
Dostoevskij – commenta Tat'jana Kasatkina – tutto il mondo e tutta la storia
costituiscono l'ambito in cui si manifesta e si perpetua il mistero della
divina presenza [61]. In realtà Sònja, non solo legge il Vangelo, ma dà vita,
con Lizavèta, a una piccola comunità che si raduna per ascoltare la Parola del
Signore (un "gruppo di ascolto" diremmo noi?); legge il Vangelo come
Parola detta a lei ora, con un valore performativo che non conosce barriere
invalicabili: è capace di vedere in quanto accade il ripetersi della sacra storia
di Gesù e di rivivere nel "qui e ora" quanto la sacra Presenza del
Redentore ha operato e gli evangelisti ci hanno raccontato.
Manca un'icona in quella
sua stanza dove tuttavia il Vangelo non è nascosto; manca, forse, ancora una
volta a causa di "quello che lei è"; ma non si vergogna di
manifestare, attraverso la presenza del Libro Eterno, la sua fede nel Figlio
dell'uomo, il quale non si vergognerà di lei davanti al Padre Suo.
D'altra parte non mancano,
nella sua storia "religiosa", gesti della pietà popolare particolarmente
significativi, come la prostrazione, lo scambio delle croci e il bacio della
terra, e sappiamo quanto importante fosse per Dostoevskij la "fede del
popolo russo", vero custode della tradizione. Si tratta di gesti di
comunione, da rinsaldare o da ricostruire. Il luogo in cui si sente
"estranea", senza dare alcun giudizio naturalmente, se non su se
stessa e sulla propria condizione di peccatrice, è la chiesa, dove dovrebbe
essere maggiormente evidente il mistero della grande comunione dei santi e dei
peccatori, dove tutti dovrebbero sentirsi responsabili di tutti e di tutto,
come apparirà in maniera evidente nei Fratelli Karamazov. È questa
corresponsabilità universale che induce Dostoevskji, da una parte, a rifiutare
ogni giudizio, che in realtà sarebbe un pre-giudizio e, dall'altra, a non
accettare in maniera acritica l'idea della santità come stato: l'appello della
Parola deve sempre essere accolto di nuovo, la presenza del Bene non perde mai
il suo carattere di provvisorietà, «la risposta non è data, resta sempre da
fare» [62]. E la strada è chiaramente indicata: è quella dell'amore umile che
si fa carico di tutti senza giudicare, smascherando così l'inganno
dell'orgoglio, di una volontà di salvezza contagiata e contaminata dalla
volontà di potenza; e l'inganno di un amore per l'umanità che, se esclude anche
uno solo dei suoi membri, sia pure una vecchia dagli occhi «sfavillanti di
malvagità», rischia di nascondere in realtà pericolose derive di odio e di
violenza. Senza, lo ripetiamo, mai "giustificare" il male, né quello
altrui, né, tanto meno, il proprio. Aveva già capito tutto, fin dall'inizio, il
vecchio ubriacone, che dichiarava accolti in paradiso anche i "porci"
proprio perché «non uno di loro se ne è mai sentito degno».
NOTE
1 L. GROSSMAN, Prefazione
a F. DOSTOEVSKIJ, Delitto e castigo, Einaudi, Torino 2014, XII.
2 All'inizio del mese di
ottobre non aveva ancora scritto nulla. Assunse allora una stenografa, Anna
Grigor'evna Snitkina, che diventerà la compagna della sua vita, e il 4 ottobre
incominciò a dettare Il giocatore, consegnato puntualmente entro la fine del
mese.
3 «Vive di tè, si chiude
in camera e scrive dall'alba fino a sera. Non può accendere la luce e, poiché
solitamente ama lavorare di notte, soffre terribilmente di questa situazione»
(Z.M. RAUDIVE, Dostoevskij. Creatore di uomini e cercatore di Dio, Paoline,
Cinisello Balsamo [Mi] 1992, 113-114).
4 Contro le combattive
idee dei raznočincy, intellettuali che non fanno parte della nobiltà
tradizionale e si affermano verso la metà dell'Ottocento, le riviste di
Dostoevskij sostengono il počvenničestvo, che propone una società su base
popolare con la conciliazione di occidentalismo e slavofilia e con
l'accettazione della monarchia di Alessandro II proprio in nome della
"popolarità".
5 «Per Dostoevskij infatti
l'azzurro e in particolare l'azzurro degli occhi è il colore della perfezione,
del bene, della redenzione, che avvicina al divino e ne riflette la sapienza.
Non a caso, oltre che in Sònja, l'azzurro degli occhi tornerà nel principe
Myškin, il moderno simbolo di Cristo» (S. ZUCAL, Romano Guardini e la
metamorfosi del «religioso» tra moderno e post-moderno. Un approccio
ermeneutico a Hölderlin, Dostoevskij e Nietzsche, QuattroVenti, Urbino 1990,
210).
6 F.M. DOSTOEVSKIJ,
Delitto e castigo, Garzanti, Milano 1985, 20. D'ora in poi si darà
semplicemente il riferimento del numero di pagina nel testo.
7 In realtà la distinzione
tra personaggi positivi e negativi sembra non essere del tutto adeguata per
Dostoevskij. Sarebbe invece da preferire, secondo Tat'jana Kasatkina, la
distinzione in personaggi "profondi" e personaggi "piatti".
«Sono piatti quelli che non hanno voluto aprire la porta a Dio, che hanno
deciso di restare soli "con se stessi", che si sono arrestati al
perimetro esteriore del loro "io", a quello che non è che l'involucro
dell'uomo: sono quelli che si sono isolati da Dio dentro e che si sentono a
proprio agio così. Lužin, ad esempio, non è un eroe negativo, è piatto. E
Sònja, non è un personaggio "positivo", ma una donna che permette
all'immagine rinchiusa nel profondo del suo io di venire alla luce e di
rischiarare e riscaldare il mondo attraverso di lei» (T. KASATKINA, È Cristo
che vive in te. Dostoevskij. L'immagine del mondo e dell'uomo: l'icona e il
quadro, Itaca, Castel Bolognese [Ra] 2012, 60).
8 Sònja sembra essere da
subito la risposta "cristiana" al folle progetto di Raskòlnikov.
«All'autoaffermazione luciferina della personalità che tende avaramente a
conservare e avidamente a aumentare la propria ricchezza, viene contrapposta la
generosa dedizione dell'anima che, secondo l'ammonimento del Vangelo, non ha
paura di autodilapidarsi [...]; al sogno di sollevarsi dalla miseria e alla
brama di potenza e di gloria, la rinunzia e l'esaurimento (kénosis), e la
ricchezza spirituale rigogliosamente fiorita nella luce della grazia» (V.
IVANOV, Dostoevskij. Tragedia Mito Mistica, Il Mulino, Bologna 1994, 89).
9 L. PAREYSON,
Dostoevskij. Filosofia, romanzo ed esperienza religiosa, Einaudi, Torino 1993,
154.
10 Mt 22,37-40; Mc
12,28-31; Lc 10,25-28 cui si aggiunge Gv 13,34-35.
11 Mt 7,1-3; Lc 6,37-38;
Mc 4,24.
12 G. ALTHEN, Dostoïevski.
Le meurtre et l'espérance, Cerf, Paris 2006, 32.
13 1 Cor 1,19-21.
14 Il popolo «io lo
conosco: da lui ho accolto di nuovo nella mia anima Cristo, che avevo
conosciuto ancora bambino nella casa paterna e che avevo perduto quando mi ero
trasformato anch'io in un "liberale europeo"» (F. DOSTOEVSKIJ, Diario
di uno scrittore, Sansoni, Milano 1981, 1286).
15 Dostoevskij li cita più
volte negli appunti preparatori dei Fratelli Karamazov.
16 «Non chiamare più Dio
giusto [...]. Suo Figlio ha reso chiaro a noi che egli è buono e gentile,
perché dice: "Egli è benevolo verso i malvagi e gli ingrati" (Lc
6,35). Come puoi chiamarlo giusto quando risponde ai lavoratori a giornata:
"Amico, io non ti faccio torto. Voglio dare anche a quest'ultimo quanto a
te... o forse il tuo occhio è invidioso perché io sono buono?" (Mt
20,13-15). Come si può chiamare Dio giusto se si considera la storia del
figliuol prodigo?... Come potrebbe esserci giustizia in Dio quando Cristo è
morto per noi peccatori?». Citato in S. SALVESTRONI, Dostoevskij e la Bibbia,
Qiqajon Comunità di Bose, Magnano (Bi) 2000, 45-46.
17 «Dalla calca uscì
timidamente, in silenzio, una ragazza, e la sua improvvisa apparizione in
quella stanza, in mezzo alla miseria, agli stracci, alla morte e alla
disperazione, produsse uno strano effetto. [...] Sònja si fermò nell'andito,
proprio sulla soglia, ma senza oltrepassarla...» (206). «Rimase così per qualche
tempo, immoto e con aria smarrita, a fissare la figlia, come se non la
riconoscesse» (208).
18 Cf M. BACHTIN,
Dostoevskij. Poetica e stilistica, Einaudi, Torino 2002, 33. Senza dimenticare,
però, quanto precisato al riguardo dallo stesso Bachtin che scrive: «Va
osservato che il nostro paragone tra il romanzo di Dostoevskij e la polifonia
ha soltanto il significato di un'analogia figurata. L'immagine della polifonia
e del contrappunto indica soltanto i nuovi problemi che sorgono quando la
costruzione del romanzo esorbita dai limiti della consueta unità monologica,
così come nella musica nuovi problemi si sono presentati quando si è andati
oltre la singola voce. Ma i materiali della musica e del romanzo sono troppo
differenti perché si possa parlare di qualcosa di più di una semplice analogia
o metafora. Questa metafora è da noi trasformata nel termine "romanzo
polifonico" poiché non troviamo un'espressione più adatta. Non dobbiamo
tuttavia dimenticare l'origine metaforica del nostro termine».
19 «Tutti i personaggi di
Dostoevskij sono abitati da una "grande idea" che in senso positivo o
negativo li conduce a "meditare le cose supreme", le cose della terra
nella prospettiva più spirituale [...], a meditare la condizione umana nella sua
relazione con Dio o con la sua assenza» (J. ROLLAND, Dostoevskij e la questione
dell'altro, Jaca Book, Milano 1990, 30).
20 «Del mondo di
Dostoevskij sono caratteristici l'omicidio (raffigurato nell'orizzonte
dell'omicida), il suicidio e la follia. Morti naturali ve ne sono poche, e di
esse egli ordinariamente si limita a informare il lettore» (M. BACHTIN,
Dostoevskij, 90). 21 «Perché poi ho voluto ficcarmi in mezzo ad aiutare? Che si
divorino pure vivi l'un l'altro! Perché proprio io dovrei aiutare? Ho il
diritto, io, di aiutare? Che cosa c'entro?» (56). Naturalmente risulta evidente
l'eco della domanda del primo omicida: «Sono forse io il custode di mio
fratello?» (Gn 4,9).
22 Torna più volte, nei
«pensieri» di Raskòlnikov, il riferimento alla purezza di cuore di Sònja. «Era
evidente che tanta ignominia l'aveva sfiorata solo meccanicamente; nemmeno una
goccia di vera depravazione era ancora penetrata nel suo cuore: egli lo vedeva;
Sònja era lì, davanti ai suoi occhi... [...] Possibile che questa creatura,
ancora pura di cuore, sprofondi coscientemente in quella lurida e fetida
fossa?» (362).
23 È ciò che capita anche
alla madre e alla sorella di Raskòlnikov a causa delle chiacchiere che
circolano su Dùnja: «Per un mese intero, in città corsero pettegolezzi su
questa storia. S'era al punto che io e Dùnja non potevamo più nemmeno andare in
chiesa, a causa delle occhiate sprezzanti e dei mormorii dietro le spalle, e
della cosa si discorreva perfino ad alta voce in nostra presenza» (37).
24 S. SALVESTRONI,
Dostoevskij e la Bibbia, 66.
25 G. GHINI, Anime russe.
Turgenev, Tolstoj, Dostoevskij. L'uomo nell'uomo, Ares, Milano 2014, 200.
Inoltre «di norma il personaggio usa la citazione in modo puramente
utilitaristico ma così facendo — al di là delle sue intenzioni — egli
"porta", "convoca" nel testo l'opera citata in tutta la sua
pienezza, e il suo senso pieno viene attivato dall'autore» (T. KASATKINA,
Dostoevskij. Il sacro nel profano, Rizzoli, Milano 2012, 200).
26 «"Allora,
nonostante tutto, credete nella Nuova Gerusalemme?" "Ci credo"
rispose con fermezza Raskòlnikov. Nel dir ciò, come durante tutta la sua lunga
tirata, aveva tenuto gli occhi fissi a terra, dopo aver scelto un punto del
tappeto. "E... e... voi credete in Dio?... Scusatemi se sono così
curioso." "Ci credo," ripeté Raskòlnikov, alzando gli occhi su
Porfirij. "E credete nella risurrezione di Lazzaro?" "Ci
cre-e-do. Ma perché volete sapere tutto questo?" "Ci credete alla
lettera?" "Alla lettera." "E così, dunque... Ero veramente
curioso di saperlo"» (292-293).
27 «Non è un caso che il
centro ideologico e strutturale di Delitto e castigo sia il capitolo evangelico
della resurrezione di Lazzaro: preannuncio della Resurrezione di Cristo e pegno
della resurrezione e del risanamento di tutti gli uomini che hanno creduto in
Lui, per quanto fossero stati corrotti dal peccato» (T. KASATKINA, Dostoevskij,
25).
28 G. ALTHEN, Dostoïevski,
142.
29 aprì il libro e cercò
il brano. Le tremavano le mani, le mancava la voce. Due volte cominciò, ma non
riuscì a spiccicare la prima sillaba» (365). «... ma alla terza parola la sua
voce si incrinò e si ruppe come una corda troppo tesa. Le mancò il respiro e si
sentì opprimere il petto» (365). «Sònja si fece forza, represse lo spasimo che
le aveva troncato la voce in gola all'inizio del versetto, [...] e, respirando
penosamente, Sònja scandì le parole con forza, come se si confessasse lei
stessa ad alta voce» (366). «Man mano che si avvicinava al racconto del sommo e
inaudito miracolo, un senso di grande esultanza si impadroniva di lei. La sua
voce si era fatta squillante come metallo; esultanza e gioia risuonavano in
essa e la rendevano più forte. Le righe si confondevano dinanzi ai suoi occhi,
perché le si offuscava la vista, ma sapeva a memoria quel che stava leggendo»
(367).
30 S. SALVESTRONI,
Dostoevskij e la Bibbia, 62.
31 «Ho forse ucciso quella
vecchietta? Ho ucciso me stesso, non la vecchietta! Mi sono ammazzato con un
colpo solo, e per sempre!» (472).
32 A Raskòlnikov,
prigioniero del proprio fantasma, la guarigione è portata da Sònja che esige da
lui una cosa soltanto: «il riconoscimento della realtà dell'uomo e dell'umanità
al di fuori di se stesso e la solenne conferma di questa nuova fede a lui
ancora estranea, mediante un atto di penitenza davanti a tutto il popolo» (V.
IVANOV, Dostoevskij, 94).
33 La parola usata da
Dostoevskij (Narezalsja) è in realtà portatrice di un duplice significato. Il
passante che si rivolge a Raskòlnikov vuole evidentemente dargli dell'ubriaco,
ma il significato principale è quello di tagliare, significato che non sfugge
al personaggio che ha appena ucciso con l'accetta la vecchia usuraia e la
sorella Lizavèta. È il modo con cui Dostoevskij "interviene" nel
racconto pur rimanendo nascosto. Nel sistema del romanzo, infatti,
l'ubriachezza rappresenta il peccato in genere (il titolo iniziale doveva
essere Gli ubriachi, ma si sarebbe trattato soprattutto dell'ebbrezza del
peccato) e il termine usato dall'autore viene ad assumere il «significato
letterale, che denuncia l'artefice del delitto, e quello simbolico che si fonda
sul senso figurato e rivela che Raskolnikov è ubriaco di peccato» (T.
KASATKINA, Dal paradiso all'inferno, 128).
34 «Anche per Fëdor M.
Dostoevskij, in profonda sintonia con la sua tradizione spirituale, la Croce è
il luogo originario della sofferenza umana e della kenosis di Dio e allo stesso
tempo è l'esperienza di compimento dell'amore nella libertà. [...] La croce è
la cifra dell'annientamento interiore (unicdenie) di Cristo che, una volta
assunto nella propria interiorità, opera la liberazione: in Delitto e castigo
Sonia propone a Rodja di scambiarsi le croci e lo stesso fa Lev Migkin con
RogoIin ne L'Idiota» (N. VALENTINI, Volti dell'anima russa, Paoline, Milano
2012, 366).
35 Citato in S.
SALVESTRONI, Dostoevskij e la Bibbia, 32. Ancora una volta il punto di
riferimento potrebbe essere Isacco il Siro citato dalla stessa Salvestroni
qualche pagina dopo. «Afflizioni, preoccupazioni, tentazioni fanno parte dei
doni che Dio manda per preparare il cammino... Nessuno può ascendere al cielo
vivendo nelle comodità. Sappiamo dove conduce la via delle comodità. Non
rifiutare le tribolazioni perché per mezzo di esse entrerai nella conoscenza.
Non temere le tentazioni perché in esse troverai beni preziosi. Fino a quando
il cuore non è umiliato non cessa di divagare. L'umiltà raccoglie il cuore...
mentre il cuore si riempie di gioia e di stupore, moti frequenti di
ringraziamento e di gratitudine sorgono in lui» (37).
36 C'è, in Dostoevskij,
un'evidente dialettica tra parola e gesto: solo l'azione svela il vero senso e
valore di un'idea o di una teoria. I gesti immediati di Sònja traducono in
maniera trasparente i suoi pensieri, mentre l'idea di Raskòlnikov non regge al
vaglio dell'azione. Per provare di essere un uomo straordinario ha autorizzato la
propria coscienza al delitto, ma il successivo fallimento mostrerà la sua
verità di uomo e dell'uomo in quanto tale: nessun al di là del bene e del male,
nessun uomo-Dio. Il riconoscimento di questa realtà costituisce per lui il
primo passo, necessario, per poter accogliere la verità del Dio-uomo.
37 Nell'esperienza di
deportazione e di lavoro forzato Dostoevskij fu colpito dalla forza di
sopportazione e dall'amore per la vita dei forzati. Rimase profondamente
ammirato, in modo particolare, dal comportamento delle mogli dei decabristi che
sacrificavano la loro vita a fianco dei mariti condannati. Anche questa parte
della vicenda di Sònja, dunque, ha un fondamento reale e addirittura
autobiografico.
38 «Nella seconda
settimana di quaresima, gli toccò digiunare insieme a tutti quelli della sua
camerata e andare in chiesa a pregare insieme a loro. A un certo punto, nemmeno
lui avrebbe saputo dire il perché, nacque una lite, e tutti gli si scagliarono
addosso furibondi. "Sei un ateo! Non credi nel Signore!" gli gridavano.
"Bisognerebbe ammazzarti". Non aveva mai parlato con loro di Dio e
della fede, eppure volevano ammazzarlo come un senza Dio! Lui stette zitto, non
replicò» (615).
39 «Dalla sponda, ch'era
piuttosto alta, si vedeva un panorama molto vasto. Dalla lontana riva opposta
giungeva, appena percettibile, una canzone. Laggiù nella steppa immensa,
inondata dal sole, nereggiavano, puntini appena visibili, le tende dei nomadi.
Laggiù c'era la libertà e vivevano altri uomini, completamente diversi da
questi; laggiù era come se il tempo si fosse fermato, come se non fossero
ancora passati i secoli di Abramo e delle sue greggi» (618-619).
40 Si veda in proposito il
capitolo intitolato Immagini e icone: gli epiloghi dei cinque romanzi di
Dostoevskij (69-146) del volume Dostoevkij di Tat'jana Kasatkina.
41 T. KASATKINA,
Dostoevskij, 77.
42 Dizionario
enciclopedico teologico ortodosso completo, Mosca 1992, vol. II, 21102111.
Citato in T. KASATKINA, Dostoevskij, 80. «A queste descrizioni aggiungerei il
particolare che su alcune icone di questo tipo si trova una scritta che sembra
circondare l'immagine: "Io sono garante dei peccatori presso Mio Figlio,
mi ha dato la Sua mano che mi ascolterà sempre, quelli che vengono a domandare
la gioia a me, attraverso di me avranno la gioia eterna"» (T. KASATKINA,
Dostoevskij, 80).
43 Espressioni come
"a un tratto" o simili indicano che la trasfigurazione può accadere
in un istante, e che quindi potrebbe anche accadere subito, a ciascuno.
44 EVDOKIMOV, Dostoevskij
e il problema del male, Città Nuova, Roma 1995, 182. «La scelta libera del
bene, poiché rigetta il male, necessita uno sforzo, una lotta, si accompagna
alla sofferenza e, come l'amore, ha luogo nel sacrificio. [...] Nella
sofferenza, nella metanoia, nel sacrificio, lo spirito umano si purifica, trova
la sua integrità. È la legge della Redenzione» (P. EVDOKIMOV, Dostoevskij,
138).
45 Il pentimento appare
improvviso, secondo la logica "dell'istante favorevole", ma è
maturato molto lentamente e strettamente connesso con l'esperienza dell'amore;
l'amore per la vita e l'amore di Sònja che smascherano l'inganno della
"dialettica", del progetto di vita puramente razionale.
46 «A chi conosce se
stesso è data la conoscenza di ogni cosa. [...] Quando l'umiltà regnerà nella
tua vita, la tua anima si sottometterà a te e con lei si sottometterà a te
tutto, perché nel cuore nascerà il mondo di Dio» (S. SALVESTRONI, Dostoevskij e
la Bibbia, 74-75).
47 Per Dostoevskij «ciò
che conta è il modo in cui il personaggio vive l'istante: nell'uomo ci sono
minuti che paiono un'eternità, e anni che sembrano trascorrere come secondi. È
a questa valutazione soggettiva del tempo che Dostoevskij volge la sua
attenzione: il tempo non è mai semplicemente chronos, è kairos, cioè momento
decisivo nel quale ogni uomo sceglie liberamente del proprio destino» (D.
D'ALESSIO, Ecce homo. Il dramma dell'umanesimo cristiano, Glossa, Milano 2000,
239).
48 N. VALENTINI, Volti
dell'anima russa, 246.
49 «Ma qui, ormai,
comincia una nuova storia, la storia della rinascita di un uomo, della sua
graduale trasformazione, del suo lento passaggio da un mondo a un altro mondo,
del suo incontro con una realtà nuova e fino a quel momento completamente
ignorata» (621).
50 R. GuARDINI,
Dostojevskij, Morcelliana, Brescia 1968, 50.
51 È abbastanza evidente
anche il valore autobiografico di questa "presenza". Nel
trasferimento a Omsk una delle mogli dei decabristi gli aveva regalato un
Vangelo che Dostoevskij conservò per tutta la vita e volle riaprire in punto di
morte.
52 L. PAREYSON, Dostoevskij,
93-94.
53 Questo carattere
infantile è esplicitamente sottolineato da Dostoevskij anche a proposito
dell'aspetto fisico di Sònja e del suo comportamento: «Il suo volto, come tutta
la sua figura, aveva poi una caratteristica speciale: nonostante i suoi
diciotto anni, sembrava ancora una ragazzina, addirittura una bambina, ciò che
si palesava a tratti, e in modo persino un po' buffo, in certe sue movenze»
(267).
54 Lo dimostrano in modo
evidente i numerosi tratti cristici e mariani di cui la figura di Sònja è portatrice.
55 Dio di Dostoevskij è la
scintilla irrequieta tra i poli elettrici degli eterni contrasti: non è un
essere, ma uno stato, uno stato di tensione, un processo di combustione del
sentimento, è il fuoco, è la fiamma che riscalda tutti gli uomini e li fa ribollire
di estasi. È l'eterno irraggiungibile, è il tormento di ogni tormento, e dal
petto di Dostoevskij erompe perciò il grido di Kirillov: "Dio mi ha
tormentato tutta la vita". Ecco il segreto di Dostoevskij: ha bisogno di
Dio e non lo trova. Talvolta crede già di appartenergli e già l'estasi lo
rapisce, ma ecco che il suo bisogno di negazione lo butta di nuovo a terra.
Nessuno ha sentito più profondamente il bisogno di Dio. "Dio mi è
necessario", dice una volta, "perché è l'unico essere che si può
amare sempre"» (S. ZWEIG, Dostoevskij, Castelvecchi Lit Edizioni, Roma
2013, 102-103).
56 Sònia, che per evitare
ai genitori e ai fratelli la morte per fame, si è fatta prostituta, è anche
essa sacrificata per i peccati altrui, ma a differenza di Elisaveta, è ella
stessa una grande peccatrice, poiché, sia pure per la salvezza altrui, insieme
con la sofferenza si assume, coscientemente e temerariamente, anche la
maledizione del peccato altrui facendolo proprio. Nel peccatore che espia il
suo peccato nella sofferenza si incontrano per antinomia maledizione e
santificazione – se non è spento in lui l'amore, se egli non è diventato (come
Svidrigàjlov) incapace di amare: perché l'impossibilità dell'amore è già
l'inferno, come insegna Zosima, e chi è incapace di amare si distacca dal
vincolo di tutti nella colpa e nella salvazione» (V. IVANOV, Dostoevskij, 95).
57 T. KASATKINA, Dal
paradiso all'inferno. I confini dell'umano in Dostoevskij, Itaca, Castel
Bolognese (Ra) 2012, 139.
58 R. GUARDINI,
Dostojevskij, 42-43.
59 R. GUARDINI,
Dostojevskij, 55.
60 K.N. LEONT'EV, L'amore
universale. Discorso di EM Dostoevskij per le celebrazioni di Puškin, 85-87,
citato in T. KASATKINA, Dostoevskij, 175.
61 «Sònja non è una
creatura che compie dei precetti a lei appropriati, ma uno strumento del
Signore. Sònja "non si avvicina alle icone miracolose" perché è lei
stessa un'icona miracolosa. Ma questo Leont'ev non era assolutamente in grado
di vederlo, e se gliel'avessero mostrato avrebbe probabilmente lanciato accuse
di sacrilegio» (T. KASATKINA, Dostoevskij, 175-176). In realtà Dostoevskij è
stato accusato di parlare poco delle funzioni liturgiche in genere, al di là
del caso specifico di Sònja. Di fatto egli «non descrive le funzioni liturgiche
perché nei suoi romanzi tutto il mondo appare come l'ininterrotto perpetrarsi
del sacro mistero della Manifestazione di Dio. Dostoevskij non descrive gli
aspetti quotidiani dell'ortodossia, raffigura l'azione di Cristo nel mondo» (T.
KASATKINA, È Cristo che vive in te, 62).
62 J. ROLLAND, Dostoevskij
e la questione dell'altro, 114.
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