martedì 6 dicembre 2016

Maurizio Blondet, a un passo dalla morte


…. Per intanto io sono ancora qui, e in un particolare stato d'animo. Dalla diagnosi all'operazione e al seguito patologico, devo una delle più importanti esperienze umane e spirituali, e ringrazio ogni giorno il Signore di avermela donata.

L'esperienza della morte prossima.

Prima, da sano, dubitavo di come avrei affrontato la morte: con disperazione, scoramento, viltà? Questo dubbio dava un brutto colore anche alla vita - tutte le cose belle, le si dovrà lasciare - e soprattutto, la silenziosa protesta contro questo destino umano, ahimè consapevole dalla sua brevità. Invidiavo gli animali che, almeno, non sanno.

Ero cristiano di forma, ma con questa protesta tacita: se siamo messi qui come prova, per soffrire, per portare la croce - perché ci giochiamo una vera vita di cui non sappiamo nulla, se non che comporta il pericolo estremo ed eterno della dannazione - che senso ha? Non è crudeltà pura? Mi astenevo dall'arrivare a questa conclusione: Dio sa.

Ma ciò copriva di una cenere di accidia, di una triste indolenza uno come me - che si avvicina ai settanta, alla fine inevitabile. Invece, nella malattia incurabile, nei ricoveri e nelle chirurgie, ho scoperto che «ce la posso fare», che quando arriva la croce e la sofferenza, «ci si riesce»: non per merito personale, ma per l'aiuto di Cristo che «fa tutto Lui».

Anche per un peccatore incallito, in quei momenti è lì, con la Misericordia che non viene meno Lui che ha già vinto, che ha superato il passaggio da cui tutti dobbiamo passare, «fa tutto». Basta aggrapparsi stretti a Lui, stringersi al suo Cuore raggiante, ed Egli opera in noi.

Siatene certi e allegri, accadrà anche a voi, cari lettori.

Con Cristo, non c'è sconfitta, non si perde mai - se non si vuole.

Il grande progetto di salvazione che consiste nel far passare la nostra animalità, i nostri corpi, nella Vita, richiede la negazione dell'istinto di sopravvivenza biologico - «Non c'è amore più grande di chi dà la propria vita per gli amici», «Pregate per coloro che vi perseguitano», «perdonate», sembrano cose impossibili - e lo sono: ma con Cristo e aggrappati al suo cuore, «si può».

Di quei giorni ricordo l'intensità della preghiera. I Rosarii sgranati deambulando nei vasti corridoi dell'ospedale, che riempivano le giornate vuote e sgorgavano con facilità.

Al sesto piano dov'ero, guardavo giù nel vasto spazio verde attorno all'ospedale. Era primavera. Degli operai stavano peparando una pista per elicotteri con la H in centro. Ma di lato, c'era un boschetto - tre o quattro alberi - che giorno dopo giorno vidi riempirsi di foglioline, di un tenero verde. Quella chioma leggera e trasparente vibrava e fremeva nel vento, la natura sempre ritornante e sempre innocente, incontaminata, in quell'angolo di Milano. Non pensavo più: ecco una cosa bella che dovrò lasciare. Ringraziavo invece per ogni foglia e ogni fremito, contento di vedere un'altra volta il «bel colpo magistrale del Creatore», certo che la Vita che ci attende se vogliamo è ancor meglio, infinitamente meglio - una Vita che è Gloria, che è Vittoria, e dove non ci mancherà nulla di quello che qui è bello.

Le esperienze umane della comune sofferenza nello stanzone ospedaliero, la semplicità e verità dei ricoverati, le loro sofferenze e i racconti delle loro sofferenze, è stata un'altra scoperta. Nella sala d'aspetto c'erano ovviamente i soliti settimanali femminili, con modelle in copertina: non riuscivo più a guardarle tanto mi sembravano false, e tanto veri invece i corpi imbruttiti, piegati, feriti dei miei compagni malati, il cui fiato s'interrompeva spesso di notte - finchè una macchina non gli forzava l'aria in gola. Vorrei aver mantenuto questo stato d'animo: l'occhio capace di vedere la verità.

Invece, col miglioramento, la zoologia riprende il sopravvento. Tornano a sembrarmi vere le modelle da copertina, e malinconico il destino della croce. Salto i Rosarii, la preghiera non sgorga più, né l'amore per il vicino.

Ma soprattutto: ero pronto a morire, o almeno così mi pare.

Perché Gesù mi ha lasciato qui ancora: devo far meglio? Non ero ancora pronto? Mi sento un po' come uno che vive in libertà condizionale, in attesa del processo d'appello. O il condannato di un carcere americano che ha avuto una sospensione della pena capitale. Come dare significato a questo tempo «en sursis», come dicono i francesi? Per un anno intero il mio vero «lavoro» è stato quello di curarmi. La flebo quotidiana ha condizionato ogni giorno della mia vita, come i pasti vegetali, i medicinali da prendere ad ore fisse. Anche la mente e il cuore erano assorbiti e impegnati. Adesso, d'accordo col mio medico ascorbico, interromperò almeno per l'estate. Sono libero. Ma per quanto? E soprattutto, perché? Scopro che questo atteggiamento è comune frai sopravvissuti. Il National Cancer Institute ha postato anche un opuscolo che dà consigli ai «survivors» su come «tornare in sintonia con se stessi». Ricorda che il cancro, secondo molti che ne sono stati colpiti, è stata «un'opportunità di crescita, un'esperienza che li ha portati a fare cambiamenti importanti nella loro vita. Molti oggi sanno apprezzare ogni nuovo giorno.». (Facing Forward: Life After Cancer Treatment)

Aleksandr Solgenitsin fu sbattuto fuori dal Gulag perché malato terminale di cancro gastrico: «Vai a morire a casa». Lo stesso giorno, in treno, udì la notizia che Stalin era morto. Tornato a casa, cancro e dolori erano scomparsi. Egli ha sempre pensato che Dio gli aveva regalato quegli anni di vita per adempiere ad un compito, rivelare l'innominabile segreto del regime, l'Arcipelago Gulag, la dantesca bolgia piena di anime sofferenti incontrate, e di tutte narrare la storia - per quanto la prodigiosa memoria gli consentiva. Ma Solgenitsin è stato un titano, pari al compito titanico. Io non trovo, confesso, un compito. Continuare questo, scrivere? Non sono sicuro che sia quello che mi viene richiesto ora. Non ho più molto interesse per ciò che prima mi infiammava alla polemica. Che mi resta da fare, Gesù? 
tratto da:
Pena sospesa - Effedieffe

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