…. Per intanto io sono
ancora qui, e in un particolare stato d'animo. Dalla diagnosi all'operazione e
al seguito patologico, devo una delle più importanti esperienze umane e
spirituali, e ringrazio ogni giorno il Signore di avermela donata.
L'esperienza della morte
prossima.
Prima, da sano, dubitavo
di come avrei affrontato la morte: con disperazione, scoramento, viltà? Questo
dubbio dava un brutto colore anche alla vita - tutte le cose belle, le si dovrà
lasciare - e soprattutto, la silenziosa protesta contro questo destino umano,
ahimè consapevole dalla sua brevità. Invidiavo gli animali che, almeno, non
sanno.
Ero cristiano di forma, ma
con questa protesta tacita: se siamo messi qui come prova, per soffrire, per
portare la croce - perché ci giochiamo una vera vita di cui non sappiamo nulla,
se non che comporta il pericolo estremo ed eterno della dannazione - che senso
ha? Non è crudeltà pura? Mi astenevo dall'arrivare a questa conclusione: Dio
sa.
Ma ciò copriva di una
cenere di accidia, di una triste indolenza uno come me - che si avvicina ai
settanta, alla fine inevitabile. Invece, nella malattia incurabile, nei ricoveri
e nelle chirurgie, ho scoperto che «ce la posso fare», che quando arriva la
croce e la sofferenza, «ci si riesce»: non per merito personale, ma per l'aiuto
di Cristo che «fa tutto Lui».
Anche per un peccatore incallito,
in quei momenti è lì, con la Misericordia che non viene meno Lui che ha già
vinto, che ha superato il passaggio da cui tutti dobbiamo passare, «fa tutto».
Basta aggrapparsi stretti a Lui, stringersi al suo Cuore raggiante, ed Egli
opera in noi.
Siatene certi e allegri,
accadrà anche a voi, cari lettori.
Con Cristo, non c'è
sconfitta, non si perde mai - se non si vuole.
Il grande progetto di
salvazione che consiste nel far passare la nostra animalità, i nostri corpi,
nella Vita, richiede la negazione dell'istinto di sopravvivenza biologico -
«Non c'è amore più grande di chi dà la propria vita per gli amici», «Pregate
per coloro che vi perseguitano», «perdonate», sembrano cose impossibili - e lo
sono: ma con Cristo e aggrappati al suo cuore, «si può».
Di quei giorni ricordo
l'intensità della preghiera. I Rosarii sgranati deambulando nei vasti corridoi
dell'ospedale, che riempivano le giornate vuote e sgorgavano con facilità.
Al sesto piano dov'ero,
guardavo giù nel vasto spazio verde attorno all'ospedale. Era primavera. Degli
operai stavano peparando una pista per elicotteri con la H in centro. Ma di
lato, c'era un boschetto - tre o quattro alberi - che giorno dopo giorno vidi
riempirsi di foglioline, di un tenero verde. Quella chioma leggera e
trasparente vibrava e fremeva nel vento, la natura sempre ritornante e sempre
innocente, incontaminata, in quell'angolo di Milano. Non pensavo più: ecco una
cosa bella che dovrò lasciare. Ringraziavo invece per ogni foglia e ogni
fremito, contento di vedere un'altra volta il «bel colpo magistrale del
Creatore», certo che la Vita che ci attende se vogliamo è ancor meglio,
infinitamente meglio - una Vita che è Gloria, che è Vittoria, e dove non ci
mancherà nulla di quello che qui è bello.
Le esperienze umane della
comune sofferenza nello stanzone ospedaliero, la semplicità e verità dei
ricoverati, le loro sofferenze e i racconti delle loro sofferenze, è stata
un'altra scoperta. Nella sala d'aspetto c'erano ovviamente i soliti settimanali
femminili, con modelle in copertina: non riuscivo più a guardarle tanto mi
sembravano false, e tanto veri invece i corpi imbruttiti, piegati, feriti dei
miei compagni malati, il cui fiato s'interrompeva spesso di notte - finchè una macchina
non gli forzava l'aria in gola. Vorrei aver mantenuto questo stato d'animo:
l'occhio capace di vedere la verità.
Invece, col miglioramento,
la zoologia riprende il sopravvento. Tornano a sembrarmi vere le modelle da
copertina, e malinconico il destino della croce. Salto i Rosarii, la preghiera
non sgorga più, né l'amore per il vicino.
Ma soprattutto: ero pronto
a morire, o almeno così mi pare.
Perché Gesù mi ha lasciato
qui ancora: devo far meglio? Non ero ancora pronto? Mi sento un po' come uno
che vive in libertà condizionale, in attesa del processo d'appello. O il
condannato di un carcere americano che ha avuto una sospensione della pena
capitale. Come dare significato a questo tempo «en sursis», come dicono i
francesi? Per un anno intero il mio vero «lavoro» è stato quello di curarmi. La
flebo quotidiana ha condizionato ogni giorno della mia vita, come i pasti
vegetali, i medicinali da prendere ad ore fisse. Anche la mente e il cuore
erano assorbiti e impegnati. Adesso, d'accordo col mio medico ascorbico, interromperò
almeno per l'estate. Sono libero. Ma per quanto? E soprattutto, perché? Scopro
che questo atteggiamento è comune frai sopravvissuti. Il National Cancer
Institute ha postato anche un opuscolo che dà consigli ai «survivors» su come
«tornare in sintonia con se stessi». Ricorda che il cancro, secondo molti che
ne sono stati colpiti, è stata «un'opportunità di crescita, un'esperienza che
li ha portati a fare cambiamenti importanti nella loro vita. Molti oggi sanno
apprezzare ogni nuovo giorno.». (Facing Forward: Life After Cancer Treatment)
Aleksandr Solgenitsin fu
sbattuto fuori dal Gulag perché malato terminale di cancro gastrico: «Vai a
morire a casa». Lo stesso giorno, in treno, udì la notizia che Stalin era
morto. Tornato a casa, cancro e dolori erano scomparsi. Egli ha sempre pensato
che Dio gli aveva regalato quegli anni di vita per adempiere ad un compito,
rivelare l'innominabile segreto del regime, l'Arcipelago Gulag, la dantesca
bolgia piena di anime sofferenti incontrate, e di tutte narrare la storia - per
quanto la prodigiosa memoria gli consentiva. Ma Solgenitsin è stato un titano,
pari al compito titanico. Io non trovo, confesso, un compito. Continuare
questo, scrivere? Non sono sicuro che sia quello che mi viene richiesto ora.
Non ho più molto interesse per ciò che prima mi infiammava alla polemica. Che
mi resta da fare, Gesù?
tratto da:Pena sospesa - Effedieffe
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